di Roberta Lamonica
Nel film vincitore del Leone d’Oro alla 75esima edizione del Festival di Venezia, ‘Roma’, di Alfonso Cuaron, l’acqua è presente ovunque: sul pavimento bagnato di acqua saponata nella scena che apre il film, nell’acqua che viene portata ai bambini, nei secchi che spengono il fuoco, nelle onde del mare, nel corpo pregno di Cleo… L’acqua si insinua in ogni interstizio e straripa da ogni argine. Tutti i personaggi del film sono fluidi e le loro vite si travasano l’una nell’altra, si dividono e poi confluiscono. Le loro vite sono come un muro di acqua che avanza e si confonde col mare, finisce a riva e torna indietro. Tutto si infrange, muta e si mischia. Non è un caso che il film inizi e idealmente finisca con l’acqua e la suggestione e il rimando simbolico al movimento delle maree, al flusso e riflusso, all’involuzione e all’evoluzione, al ritorno al grembo materno o al ripiegamento su di sé.
Al centro della narrazione c’è Cleo, tata mixteca di una famiglia borghese di Città del Messico nei primi anni ’70, la cui vita e storia personale si intreccia indissolubilmente con le vicende personali della signora Sofia e dei suoi quattro figli. Cleo è indispensabile ma decisamente ‘invisibile’. A lei tocca pulire gli escrementi del cane di famiglia, gli escrementi della famiglia per ampliamento simbolico. A lei tocca sorbire i rimproveri della sua ‘signora’, intrattabile perché in piena crisi matrimoniale, a lei tocca sacrificare la dimensione personale, rubando scampoli di attenzioni da chi non ne merita affatto. Eppure la piccola Cleo ha il potere di tessere silenziosamente, con il suo semplice esserci, quella trama di relazioni che sostiene ogni essere umano nel proprio cammino nel mondo, in questo caso anche la relazione all’interno della famiglia che ‘serve’. Lei, con la sua forza, il suo silenzio, la sua resilienza, la sua umanità disinteressata, è in grado di offrire agli altri bellezza e armonia, e di tenerli insieme in un caleidoscopio di ombre e di luce, facendo ordine nel caos della banale giustapposizione di cose e persone. Cleo lascia che la vita le scorra addosso, come acqua, dal di dentro e dal di fuori: alla vita, Cleo non si oppone e accogliendone la pluralità come necessaria, crea nuova vita e nuova luce.
Il potere quasi magico di Cleo è di fungere da cardine intorno a cui tutti gli altri personaggi possono crearsi e riconoscersi, di fare grande il mondo facendo della quotidianità un miracolo di relazioni buone e sensate.
Eppure nell’orizzonte vivificato dalla forza creatrice del femminino sacro rappresentato da Cleo, irrompe la morte. Una morte che non è affatto la fine ma è la possibilità di essere tutto e con tutto. Essa è solo inizialmente paralizzante e funesta ma poi sorprende con la comprensione del fatto che contro la finitezza, la caducità, l’irrigidimento, esiste l’abbandono dell’io e abbraccio con le cose, con il mondo e la conseguente partecipazione a un orizzonte illimitato, senza confini.
Ed è così che Cleo supera i propri limiti per abbracciare il proprio destino e strappare all’acqua ciò che ha di più caro e riabbracciare il suo tutto, fatto di panni stesi al vento di un terrazzo immerso nel bianco abbacinante e accecante del sole e fatto di aerei che portano lontano, verso altre speranze e altri mondi…lasciando Roma e l’Assoluto che rappresenta, cristallizzato e perfetto nella memoria dei protagonisti.
Sulla figura di Cleo, cara Roberta, vorrei aggiungere qualche nota piu’ amara. Ho ammirato “Roma” di Cuarón ieri sera in extremis: all’ultimo spettacolo dell’ultimo giorno in cui era programmato al Cinema Farnese. Chissa’ se e quando tornera’ in un cinema di Roma, il film premiato come il migliore quest’anno a Venezia. Capisco la diffidenza dei distributori: stavo per addormentarmi, dopo la prima mezz’ora. Ma insieme al sonno montava una rabbia che mi ha tenuto sveglio, per fortuna. Faceva noia e rabbia, assistere alle monotone e deprimenti giornate di questa ragazza due volte sfruttata: usata da una famiglia borghese come serva h24, anche come figura affettiva sostituitiva dei genitori; e usata sessualmente da Firmin, bullo che la molla insultandola, quando Cloe resta incinta di lui. Viene voglia di urlare a Cloe: “Che fai ancora la’? Vattene, scappa da quell’inferno, via dalle vite di quei vampiri, prendi uno di quegli aerei che volano in continuazione sulla tua vita sacrificata al benessere altrui, e pensa al tuo”il film ti sveglia, accadono alcune piccole grandi cose nella vita di Cloe, che diventa meno monotona. Girato nel bianco e nero dei ricordi, il film decolla lentamente, si fa denso di contrasti e di sfumature grigie. I contrasti tra il bianco e il nero, il povero e il ricco (che sfrutta il povero anche quando sembra che sinceramente gli voglia bene), tra l’adulto e il bambino, tra la protesta e il potere, tra la vita e la morte, tra la donna e l’uomo (gli uomini che agiscono in questo film femminile sono mediocri e/o violenti, non ce n’e’ uno che si salvi). Sono i soliti contrasti, che inesorabilmente annoiano, ma allo stesso tempo preparano alla seconda parte del film, quella che sorprende e commuove, nel profondo, pennellando delicate sfumature grigie. Il grigio delle crisi, delle incertezze e del futuro da ricostruire. Il grigio mutevole confine tra dignita’ e lavoro, tra generosita’ e ingenuita’, tra affetto e opportunismo, incarnati da una Cleo che e’ tanto piu’ fragile e vulnerabile, quanto piu’ e’ spontanea e ingenua la sua femminilita’. Se questa e’ una traccia autobiografica del regista, e’ una nobile lettera di scuse verso la “sua” domestica, amata e usata, spesso abusata. Si potrebbe dire che lo stesso film – cosi’ ben riuscito – e’ l’ultimo servizio reso al padrone da quella donna.
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Andrea, sono d’accordo. Il ‘tanto più fragile e vulnerabile, quanto più è spontanea e ingenua la sua femminilità’, è una cifra importante nel film. La femminilità rappresentata da Cleo ma, a tratti, anche da Sofia contro l’energia maschile, violenta e quasi futurista, rappresentata da un auto inquadrata in tutti i suoi dettagli luccicanti ma che non ‘fit in’, non si adatta agli spazi che dovrebbe occupare. La stessa mascolinità rappresentata dal bastone, sia esso il membro o il bastone dell’arte marziale che pratica, da Firmin.
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Già. Mascolinità e virilità sono cose diverse. La seconda comprende la prima, in una dimensione di rispetto verso la donna. La mascolinità di Firmin non è virile: nel momento in cui scarica Cleo insultandola e ferendola, dimostra debolezza e insicurezza. Sono tante le scene in cui il regista, con garbo sottile, innesca la riflessione. Per esempio, quando i ragazzi non riescono ad eseguire l’esercizio d’equilibrio ad occhi chiusi proposto dal maestro d’armi, in costume da grottesco supereroe. Cleo invece sì, ci riesce. O quando il suo padrone si defila per altre urgenze mentre Cleo sta per partorire. O la freddezza, apparentemente professionale, ma assai poco virile perché anaffettiva, con cui il giovane medico le comunica la morte della neonata.
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Sulla figura di Cleo, cara Roberta, vorrei aggiungere qualche nota piu’ amara. Ho ammirato “Roma” di Cuarón ieri sera in extremis: all’ultimo spettacolo dell’ultimo giorno in cui era programmato al Cinema Farnese. Chissa’ se e quando tornera’ in un cinema di Roma, il film premiato come il migliore quest’anno a Venezia. Capisco la diffidenza dei distributori: stavo per addormentarmi, dopo la prima mezz’ora. Ma insieme al sonno montava una rabbia che mi ha tenuto sveglio, per fortuna. Faceva noia e rabbia, assistere alle monotone e deprimenti giornate di questa ragazza due volte sfruttata: usata da una famiglia borghese come serva h24, anche come figura affettiva sostituitiva dei genitori; e usata sessualmente da Firmin, bullo che la molla insultandola, quando Cleo resta incinta di lui. Viene voglia di urlarle: “Che fai ancora la’? Vattene, scappa da quell’inferno, via dalle vite di quei vampiri, prendi uno di quegli aerei che volano in continuazione sulla tua vita sacrificata al benessere altrui, e pensa al tuo”. Il film ti sveglia quando a Cleo accadono alcune piccole grandi cose, e la sua vita diventa meno monotona. Girato nel bianco e nero dei ricordi, il film decolla lentamente, si addensa di contrasti, e di sfumature grigie. I contrasti tra il bianco e il nero, il povero e il ricco (che sfrutta il povero anche quando sembra che sinceramente gli voglia bene), tra l’adulto e il bambino, tra la protesta e il potere, tra la vita e la morte, tra la donna e l’uomo (gli uomini che agiscono in questo film femminile sono mediocri e/o violenti, non ce n’e’ uno che si salvi). Sono i soliti opposti, che inesorabilmente annoiano, ma allo stesso tempo preparano alla tesi del film, quella che sorprende e commuove, nel profondo, pennellando delicate sfumature grigie. I grigi delle crisi, delle incertezze e del futuro da ricostruire. Il grigio mutevole confine tra dignita’ e lavoro, tra generosita’ e ingenuita’, tra affetto e opportunismo, incarnati da una Cleo che e’ tanto fragile e vulnerabile quanto e’ spontanea e ingenua la sua femminilita’. Se “Roma” e’ autobiografico, allora e’ una nobile lettera di scuse che il regista dedica alla “sua” domestica, amata e usata, spesso abusata. Si potrebbe dire che lo stesso film – cosi’ ben riuscito – sia l’ultimo servizio reso al padrone, da quella donna. O da lui preteso.
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(se vuoi, conserva solo il secondo commento, grazie…)
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