di Bruno Ciccaglione
Alcuni film lasciano sullo spettatore un’impressione così forte e duratura, da farci capire concretamente che cosa si intenda quando si dice che per realizzare un’opera le idee siano più importanti dei mezzi per realizzarla. A volte questo impatto non è dovuto alla vicenda raccontata, più o meno avvincente, alla spettacolarità della rappresentazione, e a volte neppure alla messa in scena di qualcosa di bello. A volte è l’estetica che qualifica il film a restare nella memoria, più di una storia o di una faccia. È questo certamente il caso di Stranger than Paradise, seconda opera di Jim Jarmusch, che uscì nel 1984 e diventò subito un film di culto.
Il cinema è una forma d’arte contemporanea per eccellenza, con tutte le sue ambiguità: l’elemento industriale della produzione è storicamente centrale e ad esso si accompagna la necessità di risorse economiche significative; la partecipazione al processo produttivo/creativo coinvolge un numero altissimo di persone, la maggior parte delle quali spesso inconsapevoli dell’aspetto artistico; la quantità di aspetti pratici, assieme alla frammentazione della realizzazione, rischia sempre di sviare l’autore dalla visione complessiva che il film si propone di servire.
La realizzazione di un piccolo film indipendente proteggeva in certa misura da questo rischio: al cortometraggio da cui era nato (il primo dei tre episodi del film, The new world), si aggiungeranno più tardi i due capitoli One year later e Paradise e il film diventerà un punto di riferimento – sia estetico che per le modalità di produzione – per una generazione di cineasti indipendenti americani e ancora oggi resta forse insuperato perfino nella carriera del suo autore, che pur non diventando mai un regista da blockbuster, ha saputo conquistare un pubblico ben più ampio di quello che restò affascinato da quest’opera giovanile. Il giovane Jarmusch riesce in questa impresa con un lavoro che è di due tipi: da un lato la sua personalità artistica ha già incuriosito l’ambiente cinematografico della “grande mela”, tanto che Wim Wenders gli regalerà la pellicola avanzatagli per la realizzazione di Lo stato delle cose – e con questa sarà girato il film – e tanto che sono diversi i professionisti di qualità che accettano di lavorare praticamente per un rimborso spese a questo film, dando un contributo eccezionale (si pensi alla fotografia di Tom Di Cilio).
Dall’altro lato, le scelte estetiche sono di grande rigore: dopo una riflessione molto approfondita, Jarmusch sceglie soluzioni tecnicamente semplici, con camera quasi sempre fissa, schermo nero a dividere ogni sequenza, grande lavoro con gli attori (che quasi sempre nel suo cinema sono i suoi amici artisti, in prestito al cinema soprattutto dal mondo della musica – nel corso degli anni John Lurie, Tom Waits, Iggy Pop ecc.) chiamati ad interpretare dei personaggi da loro stessi ispirati, le musiche bellissime di John Lurie (scritte per un quartetto d’archi che crea un’atmosfera da jazz sperimentale molto delicata, senza frenesie). Le scelte formali non mancarono di colpire addirittura Akira Kurosawa, che riferì pubblicamente della sua ammirazione per questo film.
Tutto, infine, concorre ad un affresco assolutamente diverso dell’America del tempo: nel pieno delle politiche ultraliberiste dell’amministrazione Reagan, cui la cultura pop contrappone l’erotismo esplosivo di Madonna, l’ambiguità post-afroamericana di Michael Jackson, la muscolarità operaia di Bruce Springsteen o il genio androgino di Prince, Jarmusch presenta un’America completamente diversa da quella che anima il dibattito pubblico.
Nel “Nuovo mondo”, il primo capitolo del film, Eva (interpretata dalla musicista ungherese Eszter Balint) appena arrivata dall’Europa viene edotta dal cugino Willie (John Lurie) sui fondamentali culturali del paese, che è bene lei apprenda al più presto: il cibo finto delle grandi catene di distribuzione, il football americano, la tv, la violenza della vita di strada da cui guardarsi, il fatto di essere “cool” – nell’abbigliamento innanzitutto, perché indicatore del modo di stare al mondo. La New York che Eva sperimenta, però, è soprattutto quella di una stanza sporca in cui sarà costretta per 10 giorni, in attesa di partire per Cleveland. All’angolo di strada in cui getta nella spazzatura il vestito regalatole dal cugino Willie, sogna forse di riappropriarsi del proprio destino e di trovare altrove un futuro migliore.
“Un anno dopo“, il secondo capitolo del film, i due amici Willie e Eddie (Richard Edson, già batterista dei Sonic Youth), dopo una vittoria ottenuta barando a poker – il gioco è la loro principale attività – partono alla volta di Cleveland in cerca di fortuna. Emblematica la scena in cui dopo un breve scambio con un operaio che aspetta al freddo il bus che lo porti in fabbrica, Eddie invita Willie a non trattare male il povero disgraziato: “Te l’immagini che cosa vuol dire lavorare in fabbrica?”. Non fa certo per loro, il lavoro. A Cleveland ritroveranno Eva, ormai inghiottita da una esistenza ordinaria e deludente, con cui fuggiranno verso l’illusorio “Paradiso” del terzo capitolo, la Florida.
Lungo tutto il film, il cliché del classico road movie, con numerose scene girate in macchina, viene in qualche modo ribaltato: a Jarmusch non interessa mostrare i grandi spazi che caratterizzano la retorica di una libertà che si conquista attraversando l’America in auto; l’attenzione è sull’abitacolo, poco confortevole, quasi claustrofobico ma protettivo, mentre fuori imperversano le intemperie, la neve e il vento, in paesaggi sempre minori, di provincia. Arrivati in Florida Willie, sempre convinto di sapere quel che ci vuole per fare davvero bella figura, compra degli occhiali da sole a tutti e tre: “Adesso sembriamo dei veri turisti!”. Lo squallido motel dove Willie si inventa uno stratagemma per pagare solo per due persone, ci dà la misura dello scarto fra la realtà e ciò che questi personaggi sognano confusamente di diventare. La melodia malinconica degli archi “guida” una panoramica fino a mostrarci Eva seduta da sola ad un tavolino di fronte ad un mare impetuoso ed i suoni della natura – i gabbiani, le onde – prevalgono, mentre Eva ne sembra affascinata. Ha con sé il registratore con cui durante il film ha ascoltato continuamente I Put a Spell on You di Screaming Jay Hawkins, ma qui il registratore tace.
Poco più avanti i tre sono di nuovo insieme, stavolta sulla spiaggia: anche qui i suoni sono quelli del vento e del mare agitato. I nostri tre (anti)eroi non si dicono una parola, ma gli sguardi sono eloquenti. Non è quello il paradiso che si aspettavano, soprattutto Willie, il leader che li ha guidati non si sa bene dove. I tre finiranno per separarsi, in modo inatteso, nel finale. Resteranno ciascuno ancor più solo di prima. Non c’è un vero dramma, non c’è una tragedia, come non c’è mai uno sprazzo di vera libertà. Nella scena finale Eva rientra nella sua camera di motel e ci sembra molto diversa dalla ragazzina che era giunta a New York all’inizio del film: è una donna, ora, forse ha imparato che cos’è la vita da queste parti ed ha anche un bel po’ di banconote in una tasca del cappotto. Appoggia il capo sullo schienale della poltrona in cui è semidistesa in un gesto che può essere di stanchezza, di meditazione o di noia. La felicità non è certo parte del suo orizzonte futuro, se mai lo è stata. In questo cinema sembra che non succeda niente, eppure c’è moltissimo.
Bellissima recensione, complimenti! Non sapevo della pellicola di Wim Wenders…
Ti ho linkato sotto la recensione che ho scritto del film sul mio blog (lo sto facendo con tutte quelle che pubblicate di Jarmusch, un regista che adoro)! :–)
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