C’era una volta in America, di Sergio Leone (1984)

di Carla Nanni

“Cosa hai fatto in tutti questi anni?”, chiede Fat Moe, prima di uscire dalla stanza.
“Sono andato a letto presto”, risponde David, togliendosi il cappotto.

Non c’è un modo facile di raccontare questo film. E’ una storia di gangsters? Una storia di malavita e di miseria e del modo di affrontarla, oppure semplicemente una storia di amicizia e d’amore? Ecco, è la storia di un’Amicizia tradita e un Amore violato.

L’ultima fatica di Sergio Leone prende forza nelle dissolvenze che delimitano passato e presente, nell’intreccio del racconto sorretto da una recitazione eccellente, e letta e tradotta dalla musica di Ennio Morricone che ancora una volta conferma la sua grandezza, dando alla pellicola una dimensione di ampio respiro anche nelle scene più fumose e cupe ambientate nella New York degli anni del Proibizionismo; dà respiro anche quando le scene sono troppo emozionanti e il rischio è quello di toglierlo.

Non c’è un modo facile di raccontare questo film, perché racconta un periodo difficile della storia del Novecento, racconta di sindacalisti e lotte di potere, leggi, corruzione e ricatto, la povertà e la fame di cinque ragazzini, la necessità di cavarsela da subito senza remore, e racconta infine la consapevolezza della perdita, del fallimento, delle scelte fatte in nome di qualcosa che in molti casi si è chiamato ‘sacrificio’.

Sergio Leone ha segnato un’epoca con quelle inquadrature, quegli zoom portati sugli occhi, il suo ‘piano americano’ – un’inquadratura stretta sul personaggio tanto da tagliare le ginocchia, per poter prendere almeno le pistole sui fianchi dei suoi eroi western. Ma il suo ultimo film è la summa e il lascito di questo enorme Maestro.

C’era una volta in America è una storia di un amore violato e di un’amicizia tradita, quindi. È la storia di un perdente e del Tempo che lo ha soggiogato.

Il Tempo è il vero protagonista del film (e infatti quest’ultimo capolavoro fa parte della cosiddetta Trilogia del Tempo con C’era una volta il West e Giù la Testa).
Il tempo ci racconta i personaggi di questo film attraverso i ricordi e la mente di David, chiuso a fumare oppio nella sala cinese, dopo aver scoperto che i suoi compagni sono stati trucidati nel compiere una rapina. Per ammissione dello stesso regista c’è un finale aperto e calcolato per lasciare spazio a più interpretazioni.

Il film è la storia di un perdente che aveva un amore e lo ha violentato per brama di possesso, perché pensava di averlo già perduto; e di un perdente che aveva un amico, ma lo ha tradito per salvare almeno la sua vita, se non la fratellanza che li aveva subito legati dalla giovinezza.

La trama interseca tre periodi della vita dell’uomo David Noodles, nato e cresciuto nella miseria del ghetto ebraico di New York, con le atmosfere nebulose e color pastello; gli anni Trenta con la fine del Proibizionismo e la sua ascesa in un mondo di malavita, e infine trentacinque anni dopo, quando un vecchio David torna con lo stesso treno nello stesso luogo che lo aveva visto giovane.

Eppure non è tanto il filo del racconto che serve individuare, quanto l’immersione del protagonista in questa specie di ricordi – l’abilità di collegare la realtà ed il sogno dato dall’oppio dà i brividi: in una scena vediamo Noodles imboccato con la pipa da un inserviente della fumeria e subito dopo lo vediamo lucido e sveglio da Fat Moe e poi ancora in fuga col primo treno che passa – e l’incertezza nel capire in quale momento questa realtà viene distorta e mutata dallo sguardo di David.

Non è facile raccontare questo film perché non parla tanto di una sequenza di cose che accadono, ma delle conseguenze delle azioni rispetto a determinati sentimenti.

Non è la storia di quanto è bella e brava Deborah, ma di quanto Noodles sia innamorato di lei e di quanto gli piaccia spiarla dal bagno del Caffè quando balla nel retrobottega, del fatto che dall’inizio è un amore che non potrà vedere luce e che comunque rimane nel cuore di David, finché lui stesso non deciderà di distruggerlo. Cosi come l’amicizia e il sodalizio con Max, troppo diverso da lui in ambizioni e con un carattere che all’inizio era così complementare a quello di David, ma che poi finisce per farli distanziare e litigare, inevitabilmente, alla fine dei giochi.

La musica e la scelta di un certo tipo di fotografia sono fondamentali, come ha dichiarato Leone in un’intervista del 1988 al Centro Sperimentale di Cinematografia (ndr), ché la difficoltà era soprattutto amalgamare il tempo e l’intreccio, perché anche al più semplice degli spettatori (e alla più semplice delle visioni) non dovesse pesare questo continuo cambio di situazioni e atmosfere.

Per questo la scelta delle pellicole differenti, di una fotografia differente per ogni epoca descritta e della musica che scandisce i momenti (come fa ‘Yesterday’ dei Beatles, che stona un po’ col resto della colonna sonora, ma serve proprio lì a dare l’immagine del tempo in cui si svolge la scena) e che a volte identifica alcuni personaggi (per la storia di Deborah c’è il ‘Deborah’s theme’, ma a introdurre Deborah c’è spesso anche ‘Amapola’ di Joseph LaCalle).

Leone non nasconde nulla tra le righe, non sono risparmiate sparatorie, sangue e violenze sessuali (impossibile per molti guardare Noodles e Deborah nella macchina una seconda volta e non solo per la scena in sé, ma perché viene dopo una delle dichiarazioni più belle mai viste sul grande schermo). Anche se è un amore malato e Deborah per prima se ne accorge, senza cedere, nemmeno di fronte a una poesia così dolce.

Deborah: “Lui è tutta una delizia, ma rimarrà sempre un teppista da quattro soldi, perciò non sarà mai il mio diletto”.

Possiamo sottolineare ogni minimo cambio di luce ad ogni passo di danza di Deborah e il riflesso negli occhi di un giovane Noodles, ad ogni parola, ad ogni “rimprovero” della sua bella? Forse la scena che non ti aspetti in un film di gangsters, o forse sì, perché anche in pellicole di quel genere c’è quasi sempre un risvolto romantico, il momento della scelta e del desiderio, il momento in cui l’amore arriva e si manifesta, anche nelle coppie meno prevedibili.

Ma David è un perdente e così sceglie di interrompere il suo idillio, perché  preferisce correre dietro a Max. “Vai, Noodles, mamma ti chiama!”, così lo apostrofa la giovanissima Deborah e lo farà anche in un’altra occasione, anni più tardi, quando incontra Noodles uscito di prigione. Un amore malato, perché oltre ad essere un perdente, David si può annoverare nella costellazione di quegli uomini che tengono una donna in gabbia, chiusa nella sfera degli interessi del marito, senza volontà o altri desideri. Deborah lo sa, perciò scappa e per questo lui la violenta nella maniera più squallida (pure l’autista lo lascia senza voler essere pagato, con un’espressione sul viso che è puro disgusto).

Leone non ci risparmia nulla, nemmeno la fine di un sogno romantico.

Max è lo straniero venuto da Brooklyn. Furbo, ambizioso e ribelle (fin dalla giovane età) riunisce la giovane gang di teppistelli per farli diventare dei veri gangsters. Nasce con Noodles una di quelle amicizie che vanno al di là di tutto, della vita stessa e possono nascere solo a una certa età, solo in certi ambienti, solo a certe condizioni. Si capisce subito chi è il capo tra i due e chi è il gregario, anche se condividono più o meno tutto – la differenza tra i caratteri è notevole e l’equilibrio fragile su cui si poggia quest’amicizia è destinato a deteriorarsi. Quando David esce di prigione nel 1933, trova l’attività della banda ingrandita, gestori di un club privato dove si contrabbanda alcool a un dollaro a tazza, dove la ricchezza e il lusso oramai sono un fatto e dove Max sembra essere il re di ogni cosa. La frattura è imminente: quando Max decide di rapinare la Federal Reserve Bank, a Noodles sembra un’impresa impossibile, un’impresa suicida. Purtroppo si è capito fin dall’inizio chi è il più furbo dei due: nella scena in cui Noodles denuncia il suo amico alle autorità c’è una breve inquadratura su Max (meraviglioso James Woods) che fa comprendere benissimo quanto lui sia consapevole della cosa.

E come non ricordare gli altri ragazzi della gang?

Patrick (Patsy): gli occhi azzurri più azzurri del cinema, quelli di Brian Bloom. Lui ci insegna quanto sia doloroso crescere. Una delle scene più belle che lo vede protagonista è quando compra il dolce più buono da Fat Moe (quello con la panna) e si siede ad aspettare sulle scale la giovane prostituta Peggy, ma alla fine sceglie di rimanere bambino e si mangia tutta la panna che le aveva promesso.

Dominic: qui scende la lacrimuccia. Sempre. Il ‘soldo di cacio’ coi calzoni corti muore ucciso da Bugsy, il boss del quartiere. Noodles non resiste e ammazza Bugsy proprio sotto gli occhi dei poliziotti, così finisce in prigione sotto lo sguardo dei suoi amici.

Negli occhi di Noodles c’è lo sguardo che racconta tutto, fino alla fine o quasi, quando finalmente scopriamo chi lo ha invitato a tornare a New York dopo anni di assenza. David “Noodles” Aaronson è un fuggiasco, fugge da quasi trentacinque anni anche se adesso, nel 1968, ultrasessantenne e disilluso dalla vita, ha il coraggio e la possibilità di tornare sui suoi passi e ripercorrere il suo passato.

Ma la vecchiaia di Noodles non esiste, o almeno così si esprime il regista che lo vede ancora all’interno della fumeria d’oppio nella scena finale, col sorriso drogato che lascia lì ogni certezza.

Gli stessi sceneggiatori che collaborarono alla stesura (lo stesso Leone lo confermerà nell’intervista al CSC nel 1988) rimasero convinti che il film finisse con la presunta morte di Max, scomparso dietro un camion della nettezza urbana (1969). Eppure riguardando la pellicola è cosi facile intuire, alla luce dell’ultima scena, quanto la versione di Sergio Leone sia la più plausibile da accettare, come interpretazione del film. C’è una ricchezza di dettagli che deve essere necessariamente calcolata al secondo perché funzionino, e nella versione restaurata del 2012, con le scene tagliate nella prima versione, questi dettagli risultano ancora più preziosi per entrare nell’anima di questo meraviglioso film.

La dimensione del sogno, allora, è quella che ci piace di più, perché il Tempo qui non ha molto significato, non ci sono pentimenti né perdenti. Alla fine si vince rimettendo a posto le cose, con la convinzione di avere di nuovo ragione e di non essere sfiancati dal rimorso. Si può incolpare il resto del mondo e il tuo amico tradito e il tuo amore violato.

Tutto questo, credo, sta nel sorriso di Noodles, drogato dall’oppio nella scena finale di questa pietra miliare del Cinema mondiale.


5 risposte a "C’era una volta in America, di Sergio Leone (1984)"

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  1. Bellissima recensione, su un film gigantesco. Come dici tu il sogno e il tempo si compenetrano, e il secondo sfuma, perdendosi e facendo perdere i protagonisti, e poi riposizionandoli. Io l’ho sempre visto come il vero film sulla Recherche di Marcel Proust, senza mai nominarlo. Il tempo che si perde e che solo alla fine, forse si ritrova.

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