Another Round (Un altro giro), di Thomas Vinterberg (2020)

di Marco Grosso

Locandina

Cos’è la gioventù? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno. Søren Kierkegaard (Aut-aut)

INTRODUZIONE AL FILM E AI SUOI LIVELLI

Fresco vincitore dell’Oscar per il miglior film internazionale alla 93/a edizione del premio è stato il danese Another round (titolo inglese dell’originale “Druk” traducibile con “ubriacarsi”) di Thomas Vinterberg anche candidato all’Oscar per il miglior regista e già autore di due perle come “Festen” (1998) e “Il sospetto” (2012).

Il nuovo e pluripremiato film del regista danese è da considerarsi senza dubbio tra i titoli più significativi di un’annata, il 2020, tanto tristemente memorabile sul piano storico mondiale quanto dimenticabile sul piano dell’offerta cinematografica generale (con qualche bella eccezione). Per questo riteniamo che il film, con i suoi molti punti di forza e qualche punto di caduta e di squilibrio nella sua costruzione, abbia strameritato il riconoscimento dell’Academy. Tra i pregi non si può non annoverare l’interpretazione credibilissima dei quattro attori protagonisti (volti noti del cinema di Vinterberg) e quella magistrale, intensissima di Mads Mikkelsen (che per inciso avrebbe meritato quantomeno una candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista) non seconda all’indimenticata prova attoriale offerta ne “Il sospetto”.

Mads Mikkelsen

“Un altro giro” è un film molto meno esplicito e superficiale di quello che può apparire ad una prima lettura, proprio come certi vini ben strutturati da degustare fino in fondo e che solo nella profondità del loro retrogusto svelano la loro essenza.

Nel film si possono distinguere due registri differenti (la commedia ironica e brillante, il dramma serrato e inquietante), che – va detto – non sempre si accordano in modo armonico e fluido. Ancora più opportuno ci sembra distinguere due livelli semantico-tematici del film: un primo livello immediato, più semplice ed esplicito (la tematica etilica), e un altro più complesso e sottile che si ritrae sullo sfondo. Quest’ultimo livello è prima annunciato nella didascalia della citazione di Søren Kierkegaard, quindi ripreso a metà film nelle parole di uno studente durante il suo esame di maturità, infine ri-velato nella strepitosa performance della sequenza finale.

Il primo livello concerne il racconto e il tema del rapporto con l’alcol di un gruppo di insegnanti cinquantenni in crisi di mezza età. A questo livello la struttura del film ricalca perfettamente la parabola dell’esperimento etilico intentato dai quattro protagonisti, ripercorso prima nel suo climax ascendente e poi, superata la soglia critica dell’etilometro che qui “detta” il ritmo narrativo, nel suo climax discendente.

A tale riguardo Vintenberg sembra voler provocatoriamente confondere le carte evitando tanto la condanna puritana del consumo abituale di alcolici quanto lo sdoganamento collettivo del suo abuso e dei suoi rischi potenzialmente nefasti. Così l’ode bukowskiana alla sbronza, l’elogio politicamente scorretto dei piaceri e dei benefici dell’alcol nelle vite dei quattro protagonisti va ad intrecciarsi -e da un certo punto in poi a ribaltarsi – nell’antitetica e drammatica descrizione della loro personale “discesa agli inferi” e della progressiva destabilizzazione psicofisica ed esistenziale, professionale e famigliare, che si verifica nelle loro vite.

Eppure già a questo primo livello la riflessione sull’uso e abuso di alcolici nelle società nordeuropee potrebbe allargarsi a quella sui molti significati di “spirito”, termine fortemente polisemico specie nella lingua latina, che oltre al significato di “sostanza alcolica” aggiunge quelli di soffio e spinta vitale, di temperamento e vivacità, di animo e coraggio, di anima ed “essenza”, di arguzia e di humour, di spettro e di ombra. È in fondo dell’intreccio di tutti questi significati di “spirito” che parla Another around.

Tuttavia se nella prima parte del film l’alcol, metodicamente controllato, appare ai protagonisti e agli spettatori la chiave per ottenere la serenità e l’allegria tanto agognate, poco a poco emergerà un livello più profondo che al centro porrà temi kierkegaardiani come la vertigine della libertà, l’angoscia della pura possibilità, la passione del paradosso e della scelta-salto ad uno stadio di vita ulteriore, l’incontro con la propria assoluta singolarità al limite della disperazione, oltre alla questione non anagrafica della giovinezza e al valore dell’amicizia. Gradatamente ci addentreremo nel cuore di quella difficile libertà esistenziale da cui nessun programma di liberazione/evasione– tanto meno quelle promesse dall’alcol – può e deve liberarci.

I quattro amici in una scena del film

LA TRAMA

Così chiede nei primi minuti del film il protagonista Martin (Mads Mikkelsen), così risponde sua moglie Anika (Maria Bonnevie).              

Martin: – Anika, sono diventato così noioso? Anika: – Rispetto a cosa? A quando eravamo giovani? Martin: – Si. Anika: – Sei cambiato così tanto.

Martin è un professore di storia alle Superiori, sulla cinquantina, sposato ad Anika che lavora con turni di notte, la coppia ha due figli adolescenti. Di colpo Martin prende coscienza che i suoi studenti, i suoi coetanei, i suoi figli e persino sua moglie lo trovano noioso, apatico, cambiato. Comincia a sentirsi amorfo, invisibile ai suoi figli, pesante e opaco per i suoi studenti, sempre meno comunicativo con sua moglie. Eppure in gioventù era stato un docente brillante, un partner appassionato, un padre premuroso, l’amico solare di molti, perfino un ballerino di danza jazz, finché con il peso degli anni e dell’abitudinario esercizio dei suoi ruoli si è via via demotivato, svuotato, spento. Così il nostro si trascina nel quotidiano, come sonnambulando tra casa, famiglia, scuola e letture. Martin conserva un’amicizia autentica e di vecchia data con quattro colleghi della scuola in cui insegna. Si tratta di amici più o meno coetanei, più o meno frustrati ed esistenzialmente ingabbiati come lui. Durante una cena di compleanno a quattro organizzata dal festeggiato in un ristorante dalle soffuse luci nordiche, Martin confessa il suo malessere interiore e accenna ai problemi che gli sta procurando anche in famiglia e a scuola. A quel punto i quattro amici-colleghi, legati tra loro da una genuina complicità e da una comune nostalgia per lo spirito goliardico e libero di un tempo, progettano di mettere in atto la teoria sperimentale elaborata da Finn Skårderud, un filosofo e psichiatra norvegese. Ad illustrare la teoria agli amici è proprio il festeggiato, il loro collega di psicologia Nikolaj. In base a questa teoria e agli studi effettuati da Skårderud l’essere umano nasce con un deficit di alcol nel sangue pari allo 0,05%. Pertanto il loro impegno sarà quello di bere dal primo mattino fino alle otto di sera, eccetto nel fine settimana, in dosaggi e frequenza necessari a mantenere nel sangue quel valore costante, annotando effetti e osservazioni secondo un vero e proprio procedimento di verifica sperimentale scandito in tre fasi. L’esperimento assicurerebbe, a detta del suo teorico, una vita più felice, disinibita, rilassata, ispirata e creativa, dunque anche più produttiva.

Così Martin, Tommy, Peter e Nikolaj (rispettivamente insegnanti di storia, di educazione fisica, di musica e di psicologia) comprano un etilometro a testa per controllare il grado alcolico nel corso della giornata e si dedicano con puntualità a costanza metodica a questa pratica, annotando tutto e ritrovandosi settimanalmente per confrontarsi e aggiornare la “tabella di marcia”.

Ognuno di loro, nella prima e nella seconda fase dell’esperimento, riscontrerà un netto miglioramento dell’umore e delle prestazioni in ogni ambito della vita quotidiana (personale, relazionale, professionale, creativo). L’alcol, controllato “scientificamente”, diventa in breve tempo per ognuno di loro il mezzo con cui affrancarsi dalle frustrazioni, dalle inibizioni, dall’ignavia e dalle rispettive crisi di mezza età. In ognuno di loro crescono fiducia e autostima, vitalità e produttività.

La parabola discendente dei protagonisti comincerà nella terza fase dell’esperimento quando i quattro, al culmine della loro fiducia in se stessi, sceglieranno di osare di più e di andare oltre fidando nel carattere soggettivo degli effetti, per raggiungere il cosiddetto “punto di accensione” di cui parlava Skårderud : una condizione estrema che li porterà a risvolti sempre più destabilizzanti ed incontrollati (a casa, a scuola, ovunque), specie per Tommy (il più sensibile e generoso dei quattro) che arriverà a togliersi la vita (l’allusione di questa impostazione al capolavoro di Marco Ferreri, La grande abbuffata del 1973, non passa inosservata).

Giunto al suo punto di rottura (la separazione temporanea dalla moglie e il suicidio di Tommy) inizia in Martin la rotazione psicologica che lo condurrà ad una nuova presa di coscienza e ad una catarsi personale straordinariamente messa in scena, sul piano cinematografico, nella sequenza finale.

LA CHIAVE KIERKEGAARDIANA

Another round, come suddetto, si apre con una citazione del grande Søren Kierkegaard, tratta da Aut-Aut: “Cos’è la gioventù? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno”.

Tale frammento va considerato, a nostro giudizio, come la chiave d’accesso al livello più profondo del film in cui Vintenberg si misura con i concetti kierkegaardiani di libertà, angoscia, singolarità, infinito e finitezza. Si tratta di un dialogo silenzioso tra il regista danese e il più autorevole pensatore danese della storia, di un confronto certamente indiretto, poco sviluppato nel film ma determinante per la sua comprensione.

Nel corso del film il nome e il pensiero di Kierkegaard compaiono nelle parole di uno studente interrogato alla prova orale della maturità proprio sul concetto di angoscia nell’opera del filosofo danese. Si tratta del giovane Sebastian, paralizzato dall’ansia dell’esame e più in generale da quella di esporsi e di vivere. Così, durante il colloquio e in presenza del membro esterno della commissione, davanti all’ansia invalidante del ragazzo, il professor Peter gli suggerisce di bere un sorso dalla bottiglietta d’acqua per riprendersi. Nulla di strano se non fosse che in quella bottiglietta non c’è acqua ma l’alcolico passato dal professore all’alunno poco prima dell’esame.

In questo modo Sebastian riesce a domare la sua ansia da prestazione e ad esporre con chiarezza un concetto nodale della filosofia kierkegaardiana, un concetto che probabilmente racchiude in sé il cuore del film:

Sebastian: Il suo [di Kierkegaard] concetto di angoscia evidenzia, tra le altre cose, il legame che si mantiene di fronte al proprio fallimento

Prof. esterno: e ancora più importante?

Sebastian: Di avere già fallito. Bisogna accettarsi come soggetto fallibile per poter amare l’altro e la vita

Prof. Peter: Puoi farmi un esempio?

Sebastian: Sì, io stesso ho fallito.

L’esame di Sebastian

Qui, mi perdonerete, ma come insegnante di filosofia avverto il bisogno di richiamare brevemente alcuni basilari concetti della filosofia di Kierkegaard, non per sfoggio nozionistico ma perché li reputo utili a decodificare quello che ho chiamato il secondo e più profondo livello di Another round. L’angoscia, secondo il grande pensatore danese, non è la paura mossa da qualcosa o riferita a qualcosa di determinato, bensì è paura di “niente”, paura indefinita, sciolta da tutto e per questo paralizzante. Ma questo “niente” coincide nel pensiero di Kierkegaard con la “vertigine della libertà” (di scelta) e con il “puro sentimento del possibile”. L’angoscia non designa pertanto uno stato d’animo o di coscienza ma la condizione esistenziale propria della libertà di ogni singolo. Occorre imparare a sopportare quest’angoscia per imparare ad essere liberi. E non c’è alcolico che possa insegnarlo.

È dunque “libertà”, a ben vedere, la parola-chiave del film di Vinterberg. Quale libertà? Evidentemente quella pensata da Kierkegaard: la libertà di rischiare e/o di fallire, di ritrovarsi e/o di perdersi, di sfuggire perennemente e disperatamente alla decisiva scelta di sé o di fermarsi coraggiosamente a scegliersi per “diventare ciò che si è”, pagandone il prezzo (solitudine e spogliamento dalle maschere, rischio del fallimento, peso della responsabilità).

L’autentica realtà della libertà, al contrario di come la si intende comunemente e narcisisticamente, è infatti radicata nell’angoscia del puro possibile e in quel senso di ubriacante vertigine che ciascun uomo prova quando prende coscienza di questo immane e tremendo potere di scegliere-scegliersi tra le illimitate possibilità dell’esistenza.

È all’altezza di quest’altra vertigine che poco a poco si approssima Martin.

Eppure – ci ricorda Kierkegaard – per esercitare il potere della libertà senza che questa si ritorca distruttivamente contro se stessa, è necessario che il singolo riconosca la finitezza e la fallibilità del suo essere libero. Senza limiti e senza l’intelligente accettazione degli stessi non si dà libertà e quella che spesso chiamiamo così, usurpandone il nome, è solo una maschera di malcelate schiavitù.  

La stessa libertà di scelta non è libera di non scegliere (dal momento che anche non scegliere è una scelta) e nessuno può e deve rispondere al mio posto delle mie scelte (principio di responsabilità). Quello che Vinteberg sta cercando di dirci, sulla scorta di Kierkegaard, è che non è possibile scegliere di sceglier-si, né affermare liberamente la libertà, se non si sono liberamente e pienamente accettati i propri vissuti fallimentari, la propria insopprimibile fallibilità, i limiti che non soltanto abbiamo ma siamo, ciascuno nella propria assoluta singolarità.

Prima di questa presa di coscienza, la libertà inseguita da Martin insieme ai suoi tre amici è solo un altro fantasma della libertà, per dirla con Bunuel, un’idea di libertà ridotta ad un programma di auto-gratificazione narcisistica e di presuntuosa auto-emancipazione da ogni limitazione esterna ed interna.

Ma questa visione di libertà non poteva che consumare se stessa trascinando le esistenze dei quattro protagonisti alla deriva, alienandole (dal loro Sé profondo, dagli altri, dal “principio di realtà” e dall’autentica natura della libertà) e finendo col sottomettere le loro volontà ad una nuova e distruttiva dipendenza (che non è solo etilismo ma incapacità di essere liberi).

UN ALTRO GIRO NELLO SPIRITO DELLA GIOVINEZZA: L’ENERGIA CATARTICA DEL FINALE

La scena finale di Another Round

Non meno centrale del tema kierkegaardiano dell’angoscia della libertà è in questo film il tema della giovinezza, dal suo deprimente smarrimento al suo recupero nostalgico e regressivo fino alla riscoperta del suo sogno consapevole. Liberati dalla sirena giovanilistica la giovinezza può giungere in età matura come una tarda primavera che ci renda capaci di immergerci nel nostro qui e ora, di rinvenire la novità nella ripetizione, di regalarci l’oblio felice del perdono a noi stessi e a ciò che si è stati e non si è stati, insomma di ripartire con “un altro giro”.

L’immagine della giovinezza evolve nel corso del film in corrispondenza al percorso di trasformazione interiore del protagonista. Alla fine la gioventù non è più agognata come evasione “all’indietro” dalla gabbia delle responsabilità affettive e professionali, dai pesi dell’età adulta, non è più centrata sulle infelici strategie di rimozione e divertissement, ma è riscoperta e riconquistata ora e in avanti come un sogno tanto fugace quanto consapevole il cui contenuto più prezioso e reale rimane l’amore.

Nelle tre fasi dell’esperimento etilico condiviso con i suoi amici lo spirito di giovinezza inseguito da Martin non esprimeva che il vano tentativo di voler disperatamente essere un altro da sé, compreso quel sé che non essendo più era diventato un altro, la sua ombra senza corpo.

Solo una volta giunto al punto più basso della sua parabola discendente, al suo punto di rottura, Martin rimetterà radicalmente in questione la sua idea di giovinezza e sarà in grado di fare “un altro giro” di lei, in lei, con lei.

Per una volta, allora, la versione non originale del titolo, “Another round”, ci sembra più interessante e aderente alla complessità del film rispetto al titolo danese originale (“Druk,”,“Ubriacarsi”) perché tutto torna a giro in questo film, sul piano narrativo e simbolico.

La gioventù diventa alla fine un altro giro di danza, un diverso modo di stare al mondo e di andare incontro a se stessi e agli altri, oltre ogni nostalgica passione del ritorno.

Il film si conclude infatti con il passaggio dei ragazzi diplomati che sfilano festosi ed euforici su un carro motorizzato che arriva e si ferma al molo. Martin, Peter e Nikolaj hanno appena brindato in un locale alla memoria dell’amico quando sentono fuori il frastuono della giovinezza che passa tra canzoni, salti, balli, risa, tappi di bottiglie di spumante che volano. Così i quattro prof escono dal locale e si uniscono ai festeggiamenti dei loro studenti. È un epilogo catartico, bellissimo, è la scena madre del film che ripete “a giro” la sequenza iniziale (la scena della gara alcoolica dei ragazzi con cui si apre il film) ma in questa ripetizione irrompe il novum, avviene il salto qualitativo (altri concetti kierkegaardiani) e anche noi, spettatori-testimoni del film, ci ritroviamo lì in mezzo, trascinati nella chiassosa e affollata coreografia finale, dentro una danza non circolare e non rituale come quella del finale di 8 e ½ ma caotica, scomposta, liberata e dissacratoria com’è la giovinezza (quella dei diciott’anni ma anche quella che riaffiora in età matura come un dono che ci riafferra). Gli amici di Martin lo incitano: “Dai, è ora di ballare!”, lui sorride, acconsente e improvvisa un ballo insieme scatenato ed elegante, leggero e impazzito come quello di un elefante tornato farfalla.

Lo scatenato numero finale

Il ballo di Martin, dal primo passo del suo corpo ancora irrigidito fino all’ultimo fermo-immagine che fissa il suo volo dalla banchina del molo verso il mare, celebra il suo ritorno agli altri (ai suoi studenti, a sua moglie, ai suoi figli, all’amico che non ce l’ha fatta) ma è anzitutto un ballo con se stesso (con le proprie debolezze e paure, limiti e demoni), con il tempo (non più da sfuggire e da esorcizzare), con la vita e la morte che si intrecciano (il funerale dell’amico e il carro festoso dei ragazzi diplomati). È insomma il momento propizio (quello che i greci chiamavano kairos) in cui ritrovare i passi del ballerino di “danza jazz” che era stato da giovane, di lasciarli riaffiorare dal sangue, dal passato, dal tempo perduto, come una fiamma che ad un soffio di vento e di spirito di colpo divampa dai tizzoni sepolti sotto la cenere. Non è più solo il ballo di uno sbronzo ma di un uomo consapevole che ha pienamente accettato la sua fallibilità e i suoi fallimenti e può bere senza più sentirsi indotto a farlo dal bisogno di scrollarsi di dosso frustrazioni e delusioni, è il ballo di un uomo che ritrova la “sobria ebbrezza” del suo spirito e del suo corpo liberato avvicinandosi alla grazia di quel “quel pianista che eccelleva nella sua arte giocando tra ubriachezza e sobrietà: in questo stato era un vero genio” citato verso metà film da Nikolaj.

Il ‘volo’

Non possiamo, all’indomani del riconoscimento dell’Accademy, non citare un retroscena extrafilmico che ci consente di comprendere e di apprezzare ancora più a fondo il senso del percorso effettuato da Vinterberg nel suo film e che riguarda il toccante discorso di ringraziamento del regista danese al momento della consegna dell’Oscar. Vintenberg si è rivolto direttamente alla figlia Ida, morta a 19 anni in un incidente d’auto quattro giorni prima dell’inizio delle riprese, come alla sua musa ispiratrice, ringraziandola e dedicandole la vittoria:

“Volevamo fare un film che celebrasse la vita. Siamo finiti per fare un film per lei, come se fosse un monumento. Ida questo è un miracolo, che è appena accaduto. Tu sei parte di questo miracolo. Forse hai mosso dei fili da qualche parte, non so, ma questo è per te. Grazie”.

Ecco che la creazione di questo film, insieme a tutti i riconoscimenti internazionali che sta ricevendo, diventano per il suo autore parte del percorso rielaborativo ed esistenziale che sta compiendo (anche questo è molto kierkegaardiano). Così il cinema torna a celebrare il potere redentore e catartico dell’arte e a concedere, quando tutto sembra invecchiare e morire, “un altro giro” di speranza e di danza nel cuore dell’eterna giovinezza della vita e della bellezza.

Thomas Vinterberg

Desidero concludere anch’io “a giro” questa mia analisi molto personale del film, riportando la versione estesa di quel passo struggente, sulla passione e sul sogno della giovinezza, da cui il regista danese ha estrapolato la citazione iniziale del film :“Io son solo, lo sono sempre stato; abbandonato, non dagli uomini – questo non mi addolorerebbe – ma dai felici geni della gioia i quali in numerosa schiera mi circondavano; dappertutto incontravo amici, dappertutto mi offrivano l’occasione. Come un uomo sbronzo raccoglie attorno a se i vapori allegri della gioventù, cosi facevano ressa attorno a me i geni della gioia e il mio sorriso era per loro. La mia anima ha perduto la possibilità. Se dovessi desiderare per me qualcosa , non vorrei ricchezza o potere, ma la passione della possibilità, l’occhio che dappertutto eternamente giovine, eternamente bruciante, vede la possibilità. Il godimento delude, non la possibilità. E qual vino è così frizzante, cosi profumato, così inebriante? (..) Allora mi viene in mente la mia giovinezza e il mio primo amore, quando ero pieno di nostalgia, ora che ho soltanto nostalgia della mia prima nostalgia. Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno” (Søren Kierkegaard).

5 risposte a "Another Round (Un altro giro), di Thomas Vinterberg (2020)"

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  1. Una recensione che ha tutti gli elementi per essere definita “critica” letterario-cinematografica . Marco Grosso adopera gli strumenti culturali, che ben possiede e padroneggia, per esporre con eleganza e proprietà di linguaggio ogni aspetto palese e/o simbolico, e condurre il lettore-spettatore nelle comprensione del film sui diversi piani nei quali la vicenda narrata si articola, facendo innamorare del film anche chi ama i libri.

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