Fallen Angels, di Wong Kar Wai (1995)

di Margherita Loglio

“Sfioriamo le spalle con tante persone ogni giorno. Alcune possono diventare amici stretti, o confidenti. È per questo che sono sempre ottimista. Qualche volta fa male.”

Tra strade deserte e vagoni della metro vuoti, strette stanze d’albergo e malinconici locali annebbiati dal fumo, nella notte di Hong Kong, persi nella solitudine metropolitana, tre personaggi vagano, cadono, si rialzano, soffrono e talvolta tra di loro si sfiorano, si urtano, si intrappolano crudelmente o si lasciano dolorosamente sfuggire.

Il rapporto professionale tra un killer e la sua assistente, messo in crisi dalla voglia di cambiamento di lui e i sentimenti celati di lei, si incrocia con la storia di Ho, un muto che sopravvive occupando i negozi dopo il loro orario di chiusura, che si innamorerà di una ragazza emotivamente instabile il cui unico desiderio è una spalla su cui piangere.

Tre personaggi notturni persi in un’erranza esistenziale senza fine sotto le sfarfallanti luci al neon che colorano una metropoli caratterizzata dall’assenza di calore umano, rincorrendo inconsolabilmente gioie momentanee e amori impossibili, cercando una felicità effimera come qualsiasi legame umano.

In Fallen Angels sono sviluppati due episodi in origine pensati come una terza storia per il precedente lavoro di Wong Kar Wai, Chungking Express, ma poi rimasti esclusi poiché troppo distanti dalla linea del film e poiché avrebbero rappresentato un’ulteriore complicazione del progetto, ma ampliati a loro volta in una pellicola autonoma con particolari scelte stilistiche nuove alla cinematografia del regista.

Un esempio è il ripetuto utilizzo del grandangolo, che con uno sguardo deformante dona una sensazione di straniamento e cattura l’instabilità dei personaggi persi nelle loro fantasie, isolati dal flusso regolare del tempo, dilaniato a sua volta dall’uso di time lapse, slow motion o step printing nelle scene d’azione.

Il distacco dalla realtà è reso ulteriormente dalle angolazioni sbilenche dalle quali i personaggi sono inquadrati, i primi piani decentrati o i movimenti di macchina barcollanti come la precarietà dei soggetti che segue, andandogli incontro o superandoli, per poi stabilizzarsi in una loro contemplazione fredda e impassibile, lasciando spazio ai loro monologhi interiori in voice over, un elemento già presente Chungking Express.

Le due narrazioni si incontrano involontariamente diverse volte prima di fondersi unicamente nel finale, che vede Ho e l’assistente a lui aggrappata, ripercorrere in moto il tunnel flebilmente illuminato già mostrato in precedenza, rifugiati in quella momentanea vicinanza e nel conforto del silenzio privo di imbarazzo di quel viaggio.

“Quella notte, vidi quella donna di nuovo. Sapevo che non saremmo mai diventati amici o confidenti. Abbiamo lasciato che ci sfuggissero troppe possibilità. Non accadde nulla, non c’era chimica. Forse era il tempo, ma quella notte l’ho trovata molto affascinante.”

In tutta la sua durata Fallen Angels non smette di ricordarci che viviamo di sentimenti labili e che non siamo altro che fugaci passeggeri nelle vite delle persone, ma anche che, a volte, per quanto ci faccia male ammetterlo, lasciamo che il passaggio di qualcuno nella nostra sia più indelebile di altri.

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