Meditare su e attraverso Perfect days, di Wim Wenders (Germania/Giappone 2023)

di Marco Grosso

La meditazione filmica di Wenders

Perfect days è molto più che un altro titolo della cinquantennale e memorabile (per quanto qualitativamente diseguale) filmografia di Wim Wenders. Sembra concepito e costruito come una raccolta di haiku scritti in immagini-movimento e chiede a chi lo guarda di andare oltre la fruizione spettatoriale, di farne occasione di anamnesi e d’intima partecipazione a ciò che è e vuol essere: un percorso meditativo in forma filmica che si snoda per intermittenti epifanie della Vita e della sua verità essenziale, come nei ripetuti e ipnotici giochi di bagliori, ombre e riverberi che accompagnano il protagonista Hirayama nei suoi stati di veglia e di sonno.

Queste “scritture di luce” tanto care a Wenders (e cos’altro sono, nella loro sostanza, la photo-graphia e la vita stessa ripresa dal cinema e proiettata sul velo-schermo del cinematografo?) che filtrano tra i rami degli alberi amati da Hirayama o si fanno origami d’ombra sulle pareti della sua stanza, vibrano in tutto ciò che il protagonista osserva e sul mirabile ventaglio espressivo del volto (quasi sempre in primo piano) di Koji Yakusho (l’attore in stato di grazia, inevitabile vincitore della Palma d’oro a Cannes come miglior attore protagonista). 

Perfect days è nella sua quintessenza un film fatto di gesti, di sguardi e di canzoni: anzitutto di gesti, nello spirito tipicamente giapponese di ricerca del gesto formalmente ed esteticamente perfetto (cioè tale da condensare in sé tutto il significato e il valore che intende realizzare o trasmettere), la cui esecuzione “calligrafica” e ripetizione “liturgica” diventano via di elevazione spirituale, perfino se il gesto in questione è quello di pulire un bagno pubblico o quello di un matto senza fissa dimora che ogni giorno al parco disegna col suo corpo incomprensibili movimenti nell’aria cui nessuno più presta attenzione (tranne il protagonista); è un film di sguardi, in particolare degli sguardi di Hirayama sempre vigili e curiosi, accudenti e mai giudicanti, puntati in tuttele direzioni ma come fossero sempre e solo rivolti al Sole che sorge (ogni riferimento al paese del Sol Levante è puramente voluto) e ai suoi seducenti giochi di ombre e luci (sempre uguali, sempre diversi) di cui il suo sguardo e la sua anima si nutrono (e il cui senso ultimo sarà svelato solo alla fine); di canzoni, che lo accompagnano e contribuiscono a trasfigurare il quotidiano andirivieni del nostro impeccabile addetto della Tokyo toilet.

Riguardo alla musica (una delle grandi protagoniste di questo film), Wenders ripesca dal suo personale repertorio di riferimenti musicali celebri brani del rock o del folk country degli anni Settanta (in qualche caso anche rivisitati da interpreti giapponesidi quel periodo): da Pale blue Eyes a Perfect Days (non a caso il titolo del film) del suo grande amico Lou Reed, da Redondo beach di Patti Smith a Feeling good di Nina Simone, da The House of the rising dei The Animals al classico di Otis Redding, canzoni che Hirayama ascolta e quasi “inspira” nell’abitacolo della sua auto van, durante il tratto di strada giornaliero tra casa e lavoro, rigorosamente dalla sua collezione di audiocassette. Canzoni che gli capita di risentire, come nel caso di The House of the rising, in versione nipponico-tradizionale, dalla voce della proprietaria del locale che frequenta (e di cui è forse segretamente innamorato). In questo film, ancor più che nelle sue opere precedenti, le canzoni svolgono una precisa funzione di sceneggiatura e mai di semplice colonna sonora: traducono i pensieri e gli stati d’animo del taciturno protagonista (ai limiti dell’afasico), secondo un utilizzo filmico della musica molto simile a quello che fa Kaurismaki nel suo recente e poetico “Fallen leaves”.

Per queste ragioni – e diverse altre che analizzeremo – Perfect days è un film che non andrebbe semplicemente visto e recensito ma rimeditato e ruminato, interiorizzato e partecipato in quello che vuol essere al di là delle sue apparenze: un’esperienza spirituale e liberatoria, tanto per il suo indimenticabile protagonista quanto per lo spettatore disponibile a lasciarsi guardare dentro dall’opera stessa (tutti gli altri non ci vedranno molto di più di un estenuante “giorno della Marmotta” di un addetto alla pulizia dei cessi pubblici o il ritrito ed elegiaco elogio delle piccole cose).

Perfect days è anzitutto il viaggio di ritorno del regista tedesco alle sorgenti spirituali ed estetiche della sua ispirazione, nell’amata Tokyo ritrovata quarant’anni dopo Tokyo-Ga, all’insegnamento cinematografico e morale del più giapponese dei maestri del cinema nipponico: il venerato Yasujiro Ozu che Wenders definì già allora “maestro irraggiungibile” e a cui il docufulm Tokyo-Ga era dedicato. L’omaggio è reso ancora più esplicito nella scelta del nome del protagonista, Hirayama, lo stesso del protagonista dell’ultimo film di Ozu (Il gusto del saké). Wenders non intende imitarne l’inconfondibile stile di ripresa e di racconto, né rievocare le atmosfere di quei capolavori figli della radicale trasformazione del Giappone negli anni dal ’49 al ‘62, ma fa molto di più: lo omaggia nel profondo lasciando che l’ispirazione del suo “maestro irraggiungibile” riprenda vita nel proprio sguardo registico e lo guidi – con il prezioso supporto dello sceneggiatore Takuma Takasaki – nella realizzazione dell’opera più giapponese della sua filmografia (opera non solo co-prodotta da Giappone e Germania ma scelta dal Giappone come candidata all’Oscar per il miglior film straniero).

La trama salvifica delle piccole cose

Narrativamente parlando Perfect days è la semplicissima storia di un sessantenne che a un certo punto della sua vita si fa assumere dall’azienda Tokyo toilet come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di un noto quartiere di Tokyo: non si tratta di squallidi e maleodoranti cessi pubblici come quelli cui siamo abituati dalle nostre parti, ma di eleganti e tecnologici bagni dal design futuristico (non sfugge l’ironico contrasto tra questa scelta e lo spirito totalmente analogico-vintage del protagonista) simili a bizzarre installazioni di arte contemporanea (emblematico il bagno dalle pareti trasparenti che diventano opache appena qualcuno vi entra). Si tratta di bagni realmente esistenti in quel quartiere, realizzati all’interno di un progettodell’amministrazione del quartiere di Shibuja (the Tokyo toiletproject) per cui Wenders era stato chiamato a realizzare un docufilm nel 2018. Ebbene il regista tedesco trasforma il progetto di questo docufilm in un lungometraggio di finzione dal respiro Zen e dalle altissime implicazioni estetico-filosofico-spirituali (e già solo questo sarebbe un motivo più che valido per non perdersi questo gioiello).

Hirayama pulisce e lustra l’interno di questi bagni con una meticolosità certosina e una dedizione totale quasi che il destino del mondo dipendesse dalla serietà e dall’altissima dignità con cui svolge il suo umile lavoro (di contro il suo giovanissimocollaboratore rappresenta la sua antitesi: chiacchierone, lavativo, goffo e approssimativo, perennemente distratto dal cellulare). Emblematica la domanda che a un certo punto gli pone, sorpreso, il ragazzo: “ma perché lo pulisci così bene se tanto poi lo risporcano subito?” e a cui, il taciturno Hirayama risponde, come quasi sempre fa, con il linguaggio degli occhi e del gesto che sta compiendo nel modo in cui lo sta compiendo.

Il film si dipana in soggettiva e nel racconto ciclico della giornata sempre uguale e in certo qual modo sempre diversa di Hirayama. Una giornata che ricomincia ogni volta che il nostro (anti)eroe sul tatami del suo mini-appartamento periferico solleva le palpebre accennando un saluto all’alba (mentre fuori una spazzina sembra ramazzare via i suoi sogni notturni) e termina ogni volta che inchina le palpebre al buio per consegnarsi dolcemente al sonno e alle sue visioni oniriche (rese dalla moglie Donata Wenders attraverso splendide micro-sequenze sperimentali in bianco e nero durante le quali flash di volti del passato si confondono con gli arabeschi d’ombre sulle pareti e il ricordo della luce solare tra i rami fotografata durante le pause pranzo al parco).

Il nastro narrativo si riavvolge di continuo, come se rivivessimo sempre lo stesso giorno, lungo un arco temporale di 12 giorni in cui sembra non accada nulla di significativo e in cui invece accade tutto ciò che conta davvero, accade la Vita nella sua nuda essenza e nel suo inspiegabile splendore, accade tutto ciò che l’Anima dimenticata e soffocata in ogni modo possibile non si stanca di dirci per risvegliarci alla sua verità. È un arco di tempo in cui abbiamo l’impressione di spiare voyeuristicamente la banale routine di un uomo qualsiasi e in cui invece scopriamo  – lentamente, perché le cose decisive nascono con lentezza e perché è solo indugiando che ci accorgiamo di Tutto e di esserci – che quella che stiamo percorrendo insieme al nostro antieroe è una via di auto-illuminazione interiore “nascosta in piena vista” e universalmente accessibile a chi ha ancora occhi per vedere, via tanto solitaria quanto colma delle altrui solitudini, via talmente semplice da non risultare mai facile, via che non è per molti né per pochi ma sempre e solo di alcuni.

Solo a metà film si comprende, dal breve incontro di Hirayama con la sorella che non frequenta da tempo, che l’estrazione familiare e il passato del protagonista fossero in realtà di tutt’altro tenore e che dunque anche la sua umile condizione lavorativa sia stata il frutto di una scelta, la scelta di percorrere la propria via, divergente da quelle proposte/imposte da un mondo che non è più il suo, una via delle microscopiche cose che abbiamo sempre di fronte ma che – osservate da vicino e amate nel loro puro esserci, accadere, restare e mutare – rivelano allo sguardo umile e sapiente la loro ricchezza inestimabile e inesauribile.

Così attraverso le pupille e le gambe di Hirayama Wenders ripercorre per sottrazione il suo itinerario artistico e umano, il suo sentiero dell’anima che lo/ci conduce all’assoluta semplicità /essenzialità della bellezza e ad una libertà dimenticata. Sbaglierebbe chi riducesse il suo discorso alla trita e ritrita celebrazione “spensierata” delle “piccole cose”, qui non si tratta infatti di ingigantire inezie e minuzie per rimpicciolire sostanze e orizzonti, né della proverbiale saggezza di chi impara a godere contentandosi di poco, ma di apprendere ed esercitare l’arte di elevare l’infimo alla sua grazia nascosta, di snidare ancora una volta l’infinito nel frammento, sapendo che davvero la felicità e lo stupore – esattamente come la più acuta malinconia e il più inconsolabile dolore! – si celano – nelle pieghe delle più piccole ed effimere cose.

Il Mondo e il Tempo di Hirayama

Quasi a metà film, un’adolescente di nome Niko riappare inaspettatamente nella vita routinaria e solitaria di Hirayama chiedendogli di ospitarla dopo una lite in famiglia, si tratta della nipote, precisamente della figlia della sorella con cui lui non ha più contatti da tempo. La reazione di Hirayama a questa improvvisa “invasione” conferma un tratto della sua personalità e del suo percorso che riaffiora in diverse forme e in più occasioni durante il film: Hirayama ha lavorato interiormente sull’arte del distacco che spiritualmente inteso altro non è che un modo dipartecipare ancor più autenticamente ed empaticamente a tutto ciò che ci accade e alla vita di tutti quelli che incontriamo, senza mai lasciarci legare da niente e da nessuno, ma senza mai risparmiarci. Così Hirayama lascia volentieri alla ragazza la sua unica camera da letto e senza alcun particolare turbamento o rigidità accetta di spostare il suo tatami in una sorta di sgabuzzino affastellato di cose (dove non smetterà di sognare i suoi giochi di luce e di ombre). La ragazza è incuriosita da questo zio taciturno e ospitale che vive immerso nel suo mondo totalmente alieno dal mondo “attuale” in cui si trova lei e sceglie di seguirlo anche al lavoro restando colpita dal modo in cui lo zio pulisce i suoi bagni futuristici.

In una sequenza-chiave del film, durante un pomeriggio in cui i due percorrono sulle loro biciclette una pista ciclabile nel centro di Tokyo che costeggia il mare, la ragazza domanda a suo zio le ragioni del suo allontanamento dall’ambiente famigliare e da sua sorella. Hirayama, in uno dei suoi rarissimi momenti di relativa loquacità, le rivela una delle sue scoperte interiori più pacificatrici: “Il Mondo è fatto di tanti mondi, alcuni di questi sono collegati tra loro, altri non lo sono e non possono né devono esserlo per forza”.

Hirayama ha scelto di salvarsi così, scegliendo di appartenere al proprio mondo spirituale, culturale e generazionale, di salvarlo nella propria routine dalla violenza e dalla insensata accelerazione delle trasformazioni in atto, senza tuttavia rinchiudersi in esso e restarne prigioniero, senza alcun vittimismo o nostalgia passatista, senza la necessità di aggiornarsi e adeguarsi al prezzo di perdersi pur di essere riconosciuto e accettato, senza alcun complesso di superiorità e alcuna presunzione di giudicarlo e di condannarlo. Si è riconciliato con se stesso e i suoi fantasmi quando si è dato il permesso di uscire dal Mondo “attuale”, “vincente” e per sua natura fagocitante, continuando ad attraversarlo e a scrutare con curiosità i mondi altrui, come un eremita-alieno che resta immerso nel mondo sapendo e accettando serenamente di non farne più parte. Hirayama ha capito che sforzarsi di collegare mondi non più comunicanti non ha senso, è vano e perfino controproducente, eppure egli sa anche che in certi Attimi radiosi, quando contemporaneamente per due persone “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta” (cito l’Attimo-contatto forse più alto del film, quello tra Hirayama e Niko in bicicletta), inspiegabilmente e senza neppure che ci si sforzi di farlo accadere, due abitanti di mondi paralleli e incomunicabili riescono a sfiorarsi e ad entrare magicamente in contatto. Questo micro-miracoli accadono più volte nel film e vale la pena di evocarne almeno alcuni: il momento nel parco, sulla panchina abituale di Hirayama, in cui Niko estrae dalla borsetta la macchina fotografica analogica che lo zio le aveva regalato da bambina meravigliandolo o il momento in cui i due si ritrovano a fotografare dal basso – lui con l’analogica, lei con lo smartphone – lo stesso gioco di luci tra i rami dell’”albero amico” (esilarante  invece il momento in cui i due si ritrovano a ridere di gusto perché lui era convinto che Spotifyfosse un negozio di dischi); il momento particolarmente inteso in cui nel totale imbarazzo Hirayama abbraccia di slancio e senza proferire parola la sorella giunta a casa sua per recuperare la figlia; il momento in cui l’alienato gesticolante al parco finalmente ricambia lo sguardo tenero che Hirayama gli rivolge durante il lavoro; il momento toccante in cui uno sconosciuto coetaneo per strada gli confessa di avere poco da vivere a causa di una diagnosi infausta e Hirayama lo invita a giocare con le loro ombre per scoprire se “quando due ombre si sovrappongono creano un’ombra più scura”).

Il messaggio di Wenders è chiaro: pur avendo scelto di vivere in dimensioni minimali/marginali, da straniero del suo tempo e della sua Tokyo, in un tempo e uno spazio percettivo altro, Hirayama si rivela molto più aperto, attento e prossimo agli altri di quelliintegrati nel modello di Mondo da cui si è scollegato (un mondo sempre più alienato, atomizzato, disanimato, smaterializzato, insensatamente accelerato, post-umano).

Ci sono momenti, nel corso del film, in cui la purezza infantile e la curiosità altruistica e disinteressata con cui Hirayama osserva e sostiene quelli che incontra (conoscenti, amici, perfetti sconosciuti) ricorda il timido e gentile angelo Bruno Ganz in Il cielo sopra Berlino o l’abnegazione del fotoreporter errante Philip Winter in Alice nelle città o la commovente e muta generosità di Travis nell’indimenticabile “Paris, Texas”. D’altronde i solitari di Wenders non vivono mai negli specchi della loro solitudine egoriferita e sembrano dialogare anche tra loro, attraverso i suoi film.

Ma allora dove vive e dimora realmente Hirayama?

Le sue dimore sono le sue passioni coltivate con devozione e costanza, le stesse che rendono autenticamente viva la sua vita e preziosa la sua umile esistenza. Hirayama abita nelle parole e nelle melodie delle canzoni che ama e in cui si riconosce, quelle che nel “mondo nuovo” non si ascoltano più; nei 36 scatti che gli consente di fare ogni rullino della sua inseparabile macchinetta analogica; nei volumi della sua piccola libreria e nei romanzi che legge specie prima di addormentarsi (Wenders inquadra diverse volte la copertina del romanzo di Faulkner e poi di Aya Koda) sempre scelti e custoditi con cura; in certe minute e fragili piantine germogliate negli angoli inosservati del parco, raccolte delicatamente con le loro radici, trapiantate in piccoli vasi disposti su un tavolino del suo appartamento e accudite con metodo etenerezza; Hirayama vive in ascolto del suo spirito e al contempo immerso nella matericità degli oggetti – in un mondo e in un tempo che ha smarrito ogni contatto tanto con lo spirito quanto con le cose ed i corpi -. Si spiega anche così, non come moda vintage, la sua predilezione per le audiocassette collezionate, per i libri e i romanzi segnati dal tempo e dai suoi appunti a margine, per i suoi rullini e le sue fotografie analogiche in bianco e nero da selezionare e stampare, da archiviare meticolosamente nel suo armadio.

Ma alla domanda su dove viva realmente Hirayama occorrerebbe rispondere, al di là di tutto: vive negli Attimi che ogni volta salva e lo salvano, ogni volta che s’accorge di esserci qui-ora, ogni volta che dentro il flusso incessante che tutto si porta via gli accade d’afferrare il mistero dell’Essere-Tempo (di quel “Tempo che È, finalmente” come canta Fossati in C’è tempo), ogni voltache riesce a scorgere la luce di quel che si modifica nella sua perpetua ripetizione insieme a quel che permane in tutto ciò che cambia, ogni volta che è sempre una soltanto e sempre diversa da tutte le altre, sempre la prima e sempre l’ultima (Ogni volta è anche il titolo di un saggio di Wenders sulla fotografia).

Hirayama vive nella sola bellezza possibile, quella che Adesso balena, ritorna, muta ai limiti dell’impercettibile. È a questo regno dell’esserci e dell’essenziale finalmente visibile ai suoi occhi che Hirayama ha scelto di appartenere e di consacrare il tempo che gli resta da vivere, i suoi pensieri e i suoi gesti, i suoi sensi e sentimenti. L’arte di vivere la propria vita consiste per lui nell’arte di abitare un mondo in cui la Vita si fa presente non secondo questo o quel criterio di misurazione, ma unicamente nella cosa che ci accade e si mostra qui-ora, mai un’altra volta e mai altrove. 

Hirayama ritrova tutto questo nella sua pratica fotografica analogica ogni volta che la visione di uno scatto gli restituisce la traccia fisica di una singolare e irripetibile emissione di luce e del suo esatto qui-ora rimasto fisicamente impresso sulla pellicola come un fantasma (eppure nulla di più vero e presente di quel fantasma che ci sta davanti al di qua e al di là di quello che in quel momento abbiamo effettivamente visto e creduto di vedere). Direbbe Roland Barthes che la fotografia non ci ricorda nulla perché fa molto di più: ripresenta ai nostri occhi quel puntuale qui-ora (proprio come lo Zen!) rivelandoci che almeno una volta, proprio quella volta che poi vediamo in fotografia, siamo stati realmente presenti e compresenti a quella luce e a ciò che ci mostrava e ci nascondeva.

Ecco perché Hirayama non può più vivere nel mondo “attuale” cioè in un Multiverso/Metaverso in cui ciascuno appare a se stesso e agli altri sincronizzato e interconnesso, in cui ogni individuo oevento sembra diventato ubiquo, sembra ritrovarsi o accadere qui e ovunque, adesso e sempre in un’altra volta, insomma un mondo in cui del suo amato e ricercato qui-ora, spiritualmente e carnalmente parlando, non è più nulla. 

Questo Presente vivente è tutto ciò che Hirayama desidera vivere ed è il grande Assente nella società del nostro tempo che ha smarrito il Presente neanche proiettandolo nel passato o nel futuroma assolutizzandolo in una perpetua Novità che si auto-consumasempre più rapidamente, dissolvendo ogni “traccia” del suo passaggio in perenne sradicamento dal Qui-Ora. 

I “giorni perfetti” di Hirayama sono quelli in cui “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta” come Hirayama e Niko ripetono e cantilenano al termine della sequenza della loro passeggiata in bicicletta mentre si allontanano dall’inquadratura.

Komorebi, il perfect ending di Wenders

Il finale o i due finali di questo film sono quanto di più illuminante e indimenticabile abbia potuto escogitare Wenders nella sua intera filmografia. Ci ritroviamo a contemplare in apnea il lungo e silente primo piano finale del protagonista, ad entrare poco a poco in questa inquadratura che si “voltifica” fino a farsi “volto assoluto” come in un primo piano di La passione di Giovanna d’Arco (Dreyer). Così sul grande schermo lo sguardo più lucente ed il sorriso più grato di Hirayama affiorano e crescono fino a trapassare impercettibilmente in un’espressione di dolore inconsolabile e in una ruga di indicibile malinconia che a sua volta torna a sciogliersi in quella medesima pacificata dolcezza e viceversa, così per diversi minuti, in una oscillazione estatica che cattura gli occhi e l’anima dello spettatore.

È un finale dal sapore testamentario a cui Wenders sembra voler consegnare tutto il senso del suo cinema e del suo percorso artistico-esistenziale, un finale che racchiude qualcosa di totalizzante e compiuto come riesce a fare ogni momento perfettoin cui “adesso” è diventato veramente “adesso e non un’altra volta”, un finale dopo il quale Wenders sembra non poter aggiungere niente di più eloquente e di più rivelativo, quasi abbia trovato il suo perfect ending, non solo di questo film ma della sua intera filmografia.

Eppure, incredibilmente, nonostante questo perfect ending, c’è un secondo finale che ci attende ma dal quale la gran parte degli spettatori non sa di essere atteso. Esso giunge alla fine dei titoli di coda, quando ormai la sale del cinema si è svuotata e quasi nessuno si è trattenuto fino a quel punto, quasi nessuno ha creduto in una ulteriore rivelazione. Alla fine, sulle note di una stupendaversione strumentale di perfect days, mentre scorre via l’ultimo titolo di coda, sul grande schermo traspare la parola-chiave, quella che permette di aprire tutte le serrature del film e dell’Anima che ce l’aveva sussurrata segretamente per tutto il film, senza che noi potessimo intenderla: KOMOREBI.  Non c’è nulla di fastidiosamente ridondante e didascalico in questo finale nascosto nel finale sia perché ad assistervi sono solo gli spettatori che hanno recepito l’invito a riscoprire il valore dell’indugio e scelto di attendere l’estrema coda del film, sia perché questa parola non “spiega” affatto ma si limita a conferire un suono e un segno aquella dolce e indefinibile temperie che fino a quel momento abbiamo avvertito.  Komorebi è infatti un vocabolo giapponese che fa riferimento ad un’esperienza intraducibile in un termine solo. Nel momento in cui appare sullo schermo è accompagnata da una definizione che recita testualmente: ”Komorebi è la parola giapponese per la luce e le ombre create dalle foglie che ondeggiano nel vento. Esiste solo una volta, in quel momento”. 

Komorebi non evoca solo il momento esatto in cui l’occhio scorge il gioco di luce e di ombre che filtra tra le fronde mosse dal vento, nomina l’enigma dell’Attimo e lo stato d’animo di sospensione, tra incanto e malinconia, che in noi scaturisce. Ogni pomeriggio, durante la sua pausa pranza al parco, Hirayama, seduto sulla sua panchina, cerca di arrestare dal basso quell’incantesimo, con la sua macchinetta ferma-attimi.

Komorebi dice allora l’illuminazione del Qui-Ora che filtra dall’intrico dei rami, quel gioco di luci ed ombre afferrato in un battito di ciglia e rimasto inafferrabile com’è il gioco della luce-vita e della sua ombra-morte cui giocammo da vivi. C’era una volta e mai più, ogni volta che ci siamo stati davvero, ogni volta che adesso è stato adesso e non un’altra volta. C’era una volta e per sempre sarà quella volta soltanto.  

Komorebi è nel suo significato più ampio il momento perfetto, quello in cui il Sé profondo, con tutti i suoi sensi aperti e illuminati, è pienamente presente a se stesso e in se stesso abbraccia ogni suo stare e dileguare, ogni suo vivere e morire istante per istante, il più struggente degli incanti e la più inconsolabile delle malinconie, quel sentire senza nome o senz’altro nome che Komorebi.

 

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