Love life, di Koji Fukada (Francia/Giappone/2022)

di Girolamo Di Noto

Pochi eventi sono portatori di tanta sofferenza, nessun’altra esperienza è capace di racchiudere il significato del tragico quanto la morte di un figlio. Love life, primo film del regista giapponese Fukada ad essere distribuito in Italia, descrive con sguardo disincantato una tragedia familiare, riflette sull’imprevedibilità della vita, costruendo una riflessione toccante sull’elaborazione del lutto e sull’incapacità di condividere il dolore, tenendosi lontano dai toni sovraccarichi del melodramma, ma concentrandosi sull’indecifrabilità delle emozioni e sulla complessità delle relazioni umane.

Il film racconta la vita di una donna, Taeko (Fumino Kimura) che vive una vita tranquilla con il marito sposato in seconde nozze, Jirō ( Kento Nagayama) e il figlio di sei anni Keita ( Tetta Shimada), nato da una relazione precedente. Un incidente domestico scuote e mette a subbuglio la vita della donna e di chi le sta vicino, determinando il ritorno del padre biologico di Keita, Park ( Atom Sunada), di cui la donna non aveva notizie da anni.

Ispirato alla canzone omonima di Akiko Yono che si ascolta sui titoli di coda del film, Love life è un’opera toccante e delicata, che parla di amore e dolore, di sguardi che non si incrociano, di parole che graffiano, di vuoti insostenibili e soprattutto di solitudine, quella solitudine che non è solo istintivamente una protezione di se stessi ma è anche quel momento che si cerca per tentare di trovare una risposta, per espiare delle colpe, per provare ad accettare un dolore troppo forte che non può che rimarcare che non esiste una maniera, non c’è una ricetta per fare i conti con le proprie emozioni. Come sopravvivere, come sopportare il peso di un tale macigno, come accettare una tragedia di così forte impatto?

La perdita di un figlio assurge a vero e proprio paradigma della sofferenza: Umberto Curi, a proposito dell’analisi de La stanza del figlio di Nanni Moretti, sottolineava come nel mondo greco esisteva l’arte di sollevare l’animo dagli affanni, praticata dal sofista Antifonte e fonti diverse raccontano che il filosofo Anassagora, quando gli annunciarono la morte del figlio, “non mutò volto e si limitò a dire: ‘ sapevo di averlo generato mortale’.”

Siamo abituati anche nella cultura nipponica, attraverso i film di maestri come Ozu e Mizoguchi, solo per citarne alcuni, a vedere come l’accettazione di un dolore forte sia compìta, sobria: diversi personaggi giapponesi fanno della pacatezza il loro punto di forza e anche Taeko affronta inizialmente il lutto quasi in modo asettico, affidando il dolore al silenzio e al distacco. Non vuole certo liberarsi dei suoi dolorosi ricordi né tanto meno pensare al suicidio come la Julie interpretata dalla Binoche dello splendido Film blu di Kieslowski, né comportarsi come Howie ( Aaron Eckart) in Rabbit Hole di Cameron Mitchell, che nega l’accaduto nel rivedere ogni sera i filmini del figlio che non c’è più: Taeko non vuole abdicare ai sentimenti e alle emozioni, ma sembra bloccata: lo sguardo vuoto, i sensi di colpa che affiorano, la sua disponibilità ad aiutare gli altri di colpo imprigionata in un dolore difficile da gestire.

È l’arrivo improvviso del padre biologico di Keita a cambiare drasticamente la situazione: sordomuto, coreano, indigente, Park è l’elemento perturbante del film, è colui che riporta alla vita l’ex moglie; se la morte improvvisa del figlio può essere paragonabile ad una scossa tellurica, lui è bufera che trascina, è lo schiaffo che risveglia dal torpore Taeko, è ammonimento a gestire il dolore “perché andare avanti non significa dimenticare”.

Sarà riallacciando i rapporti con il passato che la donna riuscirà a raccogliere i cocci della sua esistenza: è necessario – sembra voler dire il regista – allontanarsi dal proprio centro per poterlo poi recuperare. La morte del bambino oltre a lasciare un vuoto incolmabile nella vita dei personaggi dà anche loro l’occasione di ripensare sé stessi, creerà uno spazio di riflessione, un esame di coscienza per ciascuno: a partire dai suoceri di Taeko, ferventi cattolici, che non erano mai riusciti a trattenere il loro disappunto perché il figlio aveva sposato uno ‘scarto’, una donna separata con figlio annesso, per poi continuare con Jirō, preso da una relazione passata che ancora lo assilla.

Fukada, attorno alla tragedia, sa sapientemente costruire un classico quadretto familiare con delle crepe, sa delineare con grazia dei personaggi che devono fare i conti sì con il vuoto ma anche con situazioni d’incomprensione che rendono difficile la comunicazione: c’è incomunicabilità tra Taeko e i suoceri, freddi e distaccati, tra la donna e il marito per vari desideri inespressi, c’è Park che è limitato perché sordomuto. Ciascun personaggio è solo con i propri pensieri, muore e rinasce costantemente, ciascuno chiamato ad affrontare la propria sofferenza.

Love life è un’opera lacerante quanto delicata, una riflessione sul riconoscimento della propria impotenza di fronte al tragico, intrisa di simboli che la rendono ancora più profonda e intima: basti pensare al ruolo dell’acqua, contemporaneamente strumento di sventura e purificazione e soprattutto alla dimensione ludica di un gioco da tavola, l’Othello, tanto amato dal bambino, che assurge a metafora della vita, con le sue pedine che si muovono, come le persone che si spostano dentro relazioni emotive complicate, pedine che in un istante da nere possono diventare bianche o viceversa, capovolgendole con una sola mano. Come può cambiare il colore della vita con un singolo evento.

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