Racconto di due stagioni, di Nuri Bilge Ceylan (Turchia/Francia/2023)

di Girolamo Di Noto

Tra le esperienze vive e memorabili di ogni spettatore, momenti che non si dimenticano tanto facilmente e nel tempo rendono salde le nostre private storie d’amore col cinema, ci sono sicuramente le bellezze dei paesaggi, soprattutto se queste sono rapportate con un tempo sospeso e inesorabile o inserite all’interno di vite isolate, insoddisfatte, intrappolate dall’ambiente circostante. Uno dei registi che ha da sempre esaltato il senso di alienazione che imprigiona i personaggi in un contesto inospitale, ostile, è stato il turco Ceylan, già autore di film belli e importanti come Il regno d’inverno e Uzak, in cui le pause, i silenzi, il “non agito”, hanno sempre avuto la stessa importanza degli accadimenti e degli snodi drammatici delle storie.

Grande cantore di solitudini, Ceylan, anche nel suo ultimo film, Racconto di due stagioni, dà vita ad una “tumultuosa commedia umana ai confini del mondo”, che vede protagonista Samet (Deniz Celiloglu), un giovane insegnante d’arte di un istituto di un remoto villaggio dell’Anatolia, che aspetta da anni di essere trasferito a Istanbul. Ma il tempo passa e una serie di eventi – tra cui l’accusa di avere dei comportamenti inappropriati con una studentessa – gli fa perdere le speranze di sfuggire alla triste vita in cui sembra essere bloccato. L’incontro con Nuray (Merve Dizdar), anche lei docente in una scuola vicina e attivista politica, servirà ad aiutarlo a superare questa situazione d’impasse in cui si è ritrovato?

Con il premio al Festival di Cannes per la migliore interpretazione femminile a Merve Dizdar, Racconto di due stagioni è innanzitutto una riflessione profonda sul rapporto tra ideali alti e puri e la brutale spietatezza della realtà.

Chi è l’adolescente Sevim (Ece Bagci) di cui il professore sembra invaghirsi? Quali desideri mai confessati potrebbero nascondersi dietro innocenti regalini, sorrisi ambigui, coccole, preferenze? Il regista non giudica, lascia in sospeso questa ambiguità di fondo, del resto da uno dei suoi scrittori di riferimento, Cechov, ha appreso la lezione di non far mai dire ai propri personaggi ciò che pensano realmente. Non è comunque l’accusa il centro del discorso attorno al quale si articola il film: l’incipit, certo, ricorda Il sospetto di Vintenberg, in cui anche lì si accusa un maestro di atteggiamenti inconvenienti, ma ciò che a Ceylan interessa mostrare è la dicotomia tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra insoddisfazione personale e sogni perduti; Sevim, in tal senso, rappresenta per l’insegnante il desiderio non nell’accezione sessualizzata ma in quanto foriero di quell’energia che vorrebbe avere, di un sogno di una vita ancora irrealizzata, oggetto lirico più che erotico, proiezione di un’estate che, in questo “regno d’inverno”, tarda ad arrivare.

Ma gli ideali, i sogni fanno fatica a farsi strada in questo villaggio sperduto e, come nella sequenza iniziale, il protagonista avanza passo dopo passo sulla neve per raggiungere la propria abitazione, così il regista procede nella nevicata di sentimenti, reazioni, parole che innerva il suo film.

Racconto di due stagioni è un resoconto sulla disillusione che investe i personaggi di quest’opera. Prima di tutto Samet, incapace di vivere a livello artistico la propria vita, bloccato, deluso dalla contemporaneità. Relegato nel cuore rurale di un’Anatolia glaciale, Samet è pigro, opportunista, è una sorta di Oblomov, attaccato alle sue individualità, con la sola ed unica certezza che è quella di andare via.

Un altro personaggio del film è Kenan (Musab Ekici), collega e coinquilino di Samet, di cui subisce la personalità. Tra i due c’è il bellissimo personaggio di Nuray, una donna vittima di un attentato terroristico che le ha causato l’amputazione di una gamba. Rispetto alle due figure maschili, Nuray sta cercando di rifarsi una vita, vuole capire se è ancora in grado di desiderare un uomo e di essere desiderata, sente il bisogno di non tirare avanti e a stento la sua vita, è soprattutto consapevole del fatto che non sarà il trasferimento in un’altra città a cambiare le cose se prima non si è disposti ad attuare un cambiamento su di sé.

C’è poi la ragazza Sevim, i cui occhi portano purezza, innocenza, in quanto essere umano ancora in divenire e altre storie che, pur non essendo raccontate, sono espresse nella bellezza delle fotografie che scatta Samet quando non è al lavoro: istantanee che raffigurano volti segnati dalla fatica di vivere, avvolti alcuni in un afflato di speranza, altri accostati, sia nella neve gelante che nel sole bruciante, ad una vita che deve trascorrere per forza di cose nel ritmo lento delle stagioni.

Tutti hanno perso qualcosa, tutti sono risentiti, tutti sono barricati dietro le parole o azioni impulsive di fronte alle delusioni della vita: se però Nuray crede ancora che si possa lottare per migliorare le cose, Samet, al contrario, si lamenta, resta incredulo, non solo è disinteressato a contestare il potere ma non fa che replicare e consolidare quel potere che moralmente lo ha già giudicato, avventandosi contro gli alunni nella scena in cui sembra quasi profetizzare loro l’amara realtà che dovranno affrontare: “Sto tentando di mettere qualcosa di buono nei vostri piccoli cervelli. Nessuno di voi diventerà mai un artista. Ve ne starete qui a coltivare canna da zucchero o patate”.

Di grande complessità e ricercatezza formale, il nuovo film di Ceylan mette in scena miserie e meschinità umane, dissertazioni sul senso della vita, narcisismo e incontro con l’altro, purezza e colpa: un’opera fluviale capace di scandagliare l’animo umano mettendolo in relazione con l’ambiente circostante che non fa che rivelare, dalla caotica e disordinata postazione di lavoro dell’insegnante alla sua casa, dall’abbacinante bellezza di un paesaggio innevato alla sorgente di un fiume, dall’aula al villaggio, insoddisfazioni personali, contorsioni morali, tensioni, pregiudizi e aperture verso l’altro.

Senza tralasciare un altro ambiente di estrema importanza – il set cinematografico – che si nota in una scena che è forse la più ardita e dirompente del film: quella che vede Samet lasciare momentaneamente la stanza che sta condividendo con Nuray, superare la parete di finzione, camminare dietro le quinte, guardarsi allo specchio, ritornare nella stanza. Una trovata registica spiazzante che unisce vita e palcoscenico, un elemento meta-cinematografico che sta forse a significare che la vita è una continua e faticosa auto-rappresentazione. Un film da non perdere, che richiede pazienza e la ripaga, opera imponente e monumentale per la capacità di toccare temi profondi e universali.

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