N-Capace, di Eleonora Danco (Italia/2014)

di Girolamo Di Noto

Se il cinema si riducesse solo a ciò che si può vedere, senza dare troppa importanza a ciò che si può dire di esso, sarebbe molto meno interessante e importante di quanto non sia. Se un film non fa pensare, riflettere, scrivere, è assai probabile che valga poco. Molto invece c’è da dire su N-Capace, primo lavoro da regista dell’attrice e performer Eleonora Danco, sulla sua poetica lieve e profonda che, nel mettere a nudo anziani e adolescenti, parenti e amici, sfocia inevitabilmente in una metafora capace di trasmettere con grande intensità il tempo che passa inesorabile, il vuoto che si ha davanti, i dubbi che da sempre attanagliano l’uomo.

Presentato in Concorso al Torino Film Festival del 2014, N-Capace è la storia di Anima in pena (Danco) che, dopo la morte della madre, percorre la strada da Terracina a Roma e si ferma a parlare con vecchie donne e giovani studenti, adulti e adolescenti, figure in transito tra diverse stagioni della vita, intervistandoli senza pudori su ambizioni, desideri, temi come il sesso, la religione, il corpo. Figure solitarie alla ricerca di un proprio centro, catapultate in destini complicati, alle prese con le emozioni più disparate, dalla malinconia alla disperazione, dalla pulsante scoperta dell’amore al consapevole abbandono di ogni possibile illusione esistenziale.

Ricco di spunti surreali, sorretto dal senso del grottesco che si rifà a modelli come Bunuel, il primo Moretti e Cinico Tv, il film della Danco ci regala l’emozione di perderci in mondi conosciuti e allo stesso tempo sorprendenti perché, se è vero che la vita raccontata, accennata dai personaggi intervistati è già nota – bisogni, istinti, attese, turbamenti, ricordi sono ormai cosa trita per lo spettatore – è anche altrettanto significativo sottolineare la meraviglia con la quale questi racconti, questi dialoghi vengono portati in scena.

Da questo punto di vista emerge con prepotenza lo stile della regista, che – non va dimenticato -proviene dal teatro, è una performer che spiazza con effetti stranianti chi la guarda, muovendosi a mezza via tra pura visionarietà e realismo popolare, tra la memoria dell’infanzia e i ritmi accelerati della meglio gioventù degli anni duemila. Tra un’intervista e l’altra vediamo la Danco vagare tra mare, campagna e città, con un letto “che puzza di cose che non tornano più”, ora nuda, ora cinta come una vestale con una tunica bianca.

Anima in pena, nell’attesa di avere il permesso dalla madre di fare il bagno al mare, si ferma a parlare con anziani e giovani, cerca di trarre le qualità di ciascuno, di entrare nelle loro emozioni, nei loro ricordi. Si aggira per gli spazi vuoti della città brandendo un piccone con il quale vorrebbe distruggere l’architettura che ha tradito i suoi ricordi, guida i suoi personaggi con domande e suggerimenti, ascolta confessioni, vissuti di giovani che rotolano, cantano, abbaiano, fischiano, cerca di afferrare la vita nella sua complessità e imperfezione, ascoltando gli altri ma cercando di rispondere anche a sé stessa, attraversando le brutture del nuovo mercato di Testaccio o immersa in una vasca ripiena di biscotti.

Sceglie volti della classe popolare, volti pasoliniani, vite inchiodate ai margini dell’esistenza, isolati in inquadrature su campo medio o catturati dal primo piano, personaggi dal differente eloquio ma accomunati da un’identica angoscia esistenziale: gli anziani manifestano una maggiore serenità per ciò che doveva compiersi e si è compiuto, alcuni misurano i giorni che restano con disincanto e allegria, altri con rammarico, gli adolescenti, al contrario, hanno maggiore ansia per il futuro, alcuni sognano di aprire una bisca, a malapena conoscono il titolo di un libro, la politica è totalmente assente, altri come Giacomo immaginano un Paradiso di “angeli vestiti di bianco ma con la pelle di tutti i colori”, chi si vergogna per i primi rapporti intimi, chi alla domanda: “Cosa fai al pomeriggio ” risponde : “Niente”.

Tra questi personaggi vi è anche il padre della regista, dapprima restio a dialogare con la figlia poi sempre più propenso a mettersi a nudo davanti alla macchina da presa. Ciò che trapela dal dialogo con il padre è a volte una sensazione di disagio, una tensione psicologica alimentata con il tempo da piccoli rancori, fraintendimenti e che sembra sciogliersi nel finale attraverso un accorgimento estetico della regista, ovvero far toccare reale e surreale, come nella scena in cui si vede il padre commuoversi per la perdita della moglie, ma poi – ecco il tocco straniante della Danco – per far comprendere la solitudine del padre, lo riprende vestito da astronauta che si reinventa un’esistenza a fianco della badante perché da solo non ce la può fare.

Un film sperimentale, insolito nel panorama cinematografico italiano, da riscoprire perché rappresenta una radiografia dell’esistente, perché ha il merito di catapultare lo spettatore in una dimensione di rutilante fantasia e amara realtà, un film controcorrente che più che documentare fa vivere e rivivere lo sbilanciamento della condizione umana davanti alla frenesia della vita, all’interno di uno stile ironico e sagace, proprio di un cinema in cui corpo e testo si fondono in un’unica espressione.

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