di Marzia Procopio
Hind Rajab, affettuosamente “Hanood”, viveva a Gaza con la sua famiglia; aveva un fratellino di 3 anni, amava il mare di Gaza, la sua sabbia dorata, le sue acque, e frequentava la materna nella “classe delle farfalle” in una scuola che si chiamava “La felicità dell’infanzia”.

Nel suo bellissimo non-film La voce di Hind Rajab, recente vincitore del Leone d’Argento a Venezia, la regista tunisina Kawthar ibn Haniyya ricostruisce le tre ore in cui gli operatori della Mezzaluna Rossa palestinese, dopo aver raccolto la telefonata della cugina di Hind, cercano sempre più disperati di salvare la piccola. Le ricostruisce con una sorta di dramma da camera che rispetta le aristoteliche unità di tempo, luogo, azione: pochissimi attori, un arco temporale ridotto, il focus sul conflitto tra Giustizia e legge di guerra. Tra i produttori esecutivi del film Brad Pitt, Alfonso Cuarón, Roooney Mara, Joaquin Phoenix e il Jonathan Glazer de La zona di interesse, che intorno alla paura paralizzante evocata al cinema dalle voci aveva costruito due anni fa il raggelante film ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis e vincitore di molti premi. Ma – mentre Glazer riprende un’opera di fiction per costruire visivamente il racconto della vita tranquilla di un gerarca nazista e della sua famiglia accanto al campo di sterminio – la regista tunisina sceglie di sceneggiare con filologica acribia le ultime ore di vita di Hind come le conobbero, il 29 gennaio del 2024, gli operatori della Croce Rossa palestinese, e di farcele arrivare alternando le scene in interno, scritte e girate con asciuttezza, linguaggio e sintassi che non strizzano l’occhio all’emotività, con le foto e i video del ritrovamento dei corpi e soprattutto con le registrazioni audio delle drammatiche telefonate con Hind. Ogni volta che sentiamo la voce della piccola, sullo schermo compare la linea bianca del file audio con il suo nome wav e il suo numero, a dire a chi guarda che ciò che è attorno è rappresentazione, ma ciò che si ascolta è vero. Tra gli operatori si instaurano le dinamiche che vediamo in ogni luogo di lavoro: c’è chi è più idealista, chi obbedisce al “protocollo di coordinamento” tra il Ministero della Salute e l’esercito israeliano, chi fa esercizi di respirazione diaframmatica per non schiantarsi, chi attinge alla fantasia, pur tra le lacrime, per fare compagnia alla bambina fino alla fine.

Come sarebbe diventata, cosa avrebbe scelto di fare Hanood se fosse arrivata alla vita adulta? Sarebbe diventata psicologa, avvocata, ingegnera, infermiera? (A Gaza, ricordiamolo, la popolazione era tra le più istruite del mondo, il tasso di analfabetismo era intorno al 2%), oppure – come ha scritto qualcuno – “di lì a qualche anno le avrebbero imposto di non mostrare neppure una ciocca di capelli”? Non lo sapremo mai, per Hind come per le migliaia di bambini e ragazzi ammazzati dalle IDF a Gaza. Non si piange quasi, nemmeno davanti agli ultimi fotogrammi, perché la regista fa una precisa scelta anti-retorica: non è il nostro dispiacere, non la nostra impotenza, al centro, ma la bambina palestinese Hin Rajab e per sineddoche tutti gli altri. L’umanità, la nostra per prima, è morta a Gaza, e la sola consolazione è che qualcuno, nel mondo, prova a fare la sua parte per rendere meno tragico quello che sta succedendo. “Chi salva una vita, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità”, recita il Talmud con una frase poi resa celebre da Spielberg e usata per descrivere i Giusti delle Nazioni del secolo scorso, un secolo breve che pure sembra lontanissimo oggi: il medico e l’infermiere che stavano andando a salvare Hind e furono colpiti da una bomba in ambulanza, gli operatori della Mezzaluna rossa che fino all’ultimo parlarono con la madre di Hind e con la bambina, sempre più impaurita man mano che scende la sera. Perché i bambini, si sa, anche in mezzo alle bombe hanno paura del buio.

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