di Girolamo Di Noto
“Ma il passato è una cosa che, quando ti ha affondato i denti nella carne, non ti molla più” (Jonathan Littell, Le benevole)

Ci sono film che da subito possiedono una forza e una intensità che lasciano lo spettatore senza parole, opere emozionanti che pongono l’urgenza di riflettere, svegliare le coscienze: The look of silence di Oppenheimer conserva queste caratteristiche, assumendo una valenza ancora più importante, se pensiamo che si tratta di un documentario e non di un prodotto di finzione, che affronta un argomento tanto delicato quanto poco conosciuto, o meglio, poco ricordato, come il genocidio perpetrato negli anni Sessanta del Novecento dalla dittatura militare indonesiana che, sotto gli ordini del generale Suharto, con la scusa di combattere il comunismo, mise in atto un sistematico massacro di ogni oppositore.

Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia 2014, prodotto tra gli altri da Errol Morris e Werner Herzog, il film racconta la storia di Adi Rukun, un optometrista indonesiano quarantenne il cui fratello è stato una delle tante vittime dello sterminio, che decide di mettersi sulle tracce dei carnefici, molti dei quali ancora vivi e ancora al potere.
Il suo scopo non è quello di vendicarsi e farsi giustizia da solo, ma di interrogarli su quanto è realmente successo, indagare i loro ricordi, sapere soprattutto se fossero stati in grado di riconoscere che ciò che avevano fatto era sbagliato.

Il regista è abile nello sfruttare tutta la potenza metaforica del lavoro di Adi per “mettere a fuoco” la verità, “far vedere” la mostruosità agghiacciante di quegli atti compiuti: davanti all’occhio della cinepresa il protagonista rintraccia assassini diversi tra loro, ma tutti accomunati dall’assenza di pentimento e dalla consapevolezza che “facevamo quel che ci diceva l’esercito”.

Le persone che Adi incontrerà nel suo peregrinare saranno terribilmente normali, la loro crudeltà faceva parte della regolare attività di servizio, sfacciati al punto da affermare che “dovrebbero mandarci in una crociera premio”, esibizionisti e narcisisti tanto da mettere in scena, mimando, quegli atti di violenza estrema, eroi della patria che hanno portato a termine una missione doverosa, ignoranti e superstiziosi, che per alleviare i rimorsi arrivavano a compiere gesti inauditi: “Per non impazzire dovevi bere il loro sangue. Se bevevi il sangue potevi fare qualsiasi cosa”.

Alcuni reagiscono con rabbia, ma altre volte non sanno cosa dire, sono smarriti e i momenti più toccanti del documentario hanno a che fare proprio con quegli sguardi tra intervistatore e intervistati che contengono emozioni che solo il silenzio può esprimere nella sua interezza. Sono confronti difficili, tesi, imbarazzanti quelli che Adi dovrà sostenere: cambiando lenti e prospettive mantiene viva la sua ostinazione a “far guardare meglio”, non arretra di fronte a nulla, dai racconti sulle torture inflitte alla scoperta di una convivenza tra familiari e carnefici, ma talvolta resta sorpreso da incontri inattesi come quello con una vedova di un carnefice, turbata dalle rivelazioni di Adi perché non a conoscenza della doppia vita del marito, o quello con una figlia, visibilmente in imbarazzo per le atrocità compiute dal padre, che chiede perdono.

Semplice e lineare, The look of silence, si fa testimone di un passato che non si può oscurare, racconta magistralmente la banalità del male, il potere del male, il male del potere. Adi vuole sapere la verità, non accetta che a scuola si continui a dire che il massacro fu giusto perché “i comunisti erano crudeli e senza Dio”, vorrebbe almeno che chi ha perpetrato il male possa, citando Kafka, prendere contatto “con le bassezze che dimorano in lui”, si fa portavoce di un cinema che non mira a stupire ma a formare, un cinema che intende decifrare i silenzi, che ha il coraggio di guardare in faccia gli assassini e che mira a restituire dignità a quelle vite che sono state spezzate, morti inghiottiti nel vuoto della rimozione di massa.

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