(CONTIENE SPOILER)
di Marco Grosso

QUALCOSA DI MAI VISTO PRIMA
Martin Scorsese ha definito “Un semplice incidente” di Jafar Panahi addirittura come “qualcosa di mai visto prima”. Ritengo che lo abbia detto essenzialmente per due motivi: 1) per l’atto di coraggio e resistenza che il film rappresenta e per le condizioni letteralmente proibitive in cui è stato girato dal regista iraniano sottoposto dal regime degli Ayatollah – nonostante la Palma d’oro e la sua fama mondiale – a un divieto ufficiale di fare cinema, insomma per l’unicità del metodo produttivo ed esecutivo; 2) per l’originalità narrativa e artistica dell’opera e per il singolare registro adottato da Panahi: la capacità di rimescolare il dramma psicologico-morale, la suspense del giallo-action, la caustica e lucida ironia per raccontare l’eterno conflitto tra giustizia, vendetta e compassione e per denunciare gli abusi del regime iraniano (e non solo).
“Un semplice incidente” è infatti il primo film diretto da Panahi dopo la sua detenzione nel famigerato carcere di Evin durata dal luglio 2022 al febbraio 2023: “Non avrei mai potuto realizzare questo film se non fossi stato arrestato, sono rimasto in carcere per sette mesi, ho ascoltato tante voci, tante storie. Il film racconta un’esperienza comune, tutti noi abbiamo subito interrogatori con gli occhi bendati», aveva detto Panahi a Cannes.
Non è dunque un caso se la metafora del prigioniero risulti centrale in questo film: il suo cinema è stato e continua ad essere una straordinaria forma di resistenza artistica ed esistenziale, culturale e politica. L’atto stesso di filmare clandestinamente, ignorando il divieto ufficiale, sta lì a confermarlo.
Il cinema resta insomma l’unica arma e l’unica via di fuga del regista da una prigione che nel frattempo sembra essersi allargata anche oltre i confini della sua terra fino a coincidere con quelli del mondo intero, come dice a metà film uno dei personaggi. Eppure finché può inquadrare, raccontare e testimoniare per immagini, Panahi è libero. Questo rende il suo cinema inestricabile dal suo personale meta-cinema, poiché la finzione si confonde con la realtà del suo esilio forzato e della sua interdizione a fare film: così il regista iraniano manipola sapientemente i confini tra ciò che è vero (la sua effettiva condizione esistenziale, politica e artistica di regista ostracizzato in patria) e ciò che è messo in scena (in questo caso un complesso congegno narrativo di “effetto domino” azionato da un microevento casuale – un semplice incidente – in grado di innescare un’inarrestabile catena di eventi imprevedibili e decisivi per tutti i personaggi in scena).
CHI È IL PRIGIONIERO?
Un semplice incidente è un gioco di specchi e di tessere a incastro che costringe lo spettatore a interrogarsi per buona parte del film sulla medesima domanda: chi è il vero prigioniero?
È l’uomo sequestrato nella prima parte, tal “Eghbal” (soprannome che sta per “gamba di legno” per via della sua protesi alla gamba), ovvero l’uomo che i quattro co-protagonisti (due uomini e due donne) associano al sadico funzionario della polizia segreta iraniana da cui anni addietro sono stati torturati e umiliati mentre erano bendati e legati in carcere?
Oppure i veri prigionieri sono i membri di questa banda improvvisata e umanissima di “sequestratori” ancora psicologicamente “sequestrati” dal loro passato traumatico, incatenati al covato desiderio di vendicarsi e al fantasma psichico di Gamba di legno che li ha impunemente umiliati nella loro più intima dignità umana?
O è Panahi stesso che lotta per la sua libertà di espressione e rievoca la sua prigionia attraverso il suo nuovo film “clandestino”?
Oppure è, infine, proprio lo spettatore che resta prigioniero, fin quasi alla fine del film, dello stesso dubbio e dilemma morale che affligge i quattro inizialmente intenzionati a vendicarsi ma inibiti sia dalla persistente incertezza circa l’identità dell’uomo catturato, sia dallo scrupolo morale di finire col rassomigliare al proprio nemico e di disumanizzarsi come lui?
Una delle idee più geniali del gioiello cinematografico di Panahi sta nello specifico percorso di riconoscimento prima sensoriale e poi tutto mentale che ognuno dei 4 personaggi compie in relazione al suo mostro da identificare, ossia al presunto responsabile delle incancellabili violenze che hanno subito, sempre più indistinguibile dallo spettro modellato dalle paure, dal rancore e dagli incubi che li perseguitano da anni. Il loro è un itinerario condiviso ma molto personale ed emotivamente impervio, sempre accompagnato e insidiato dal dubbio irrisolto circa la vera identità e dunque l’effettiva colpevolezza dell’uomo che hanno catturato. Si tratta di un processo avviato, per ognuno di loro, dalla percezione di un diverso organo sensoriale (esclusa la vista). Se da un lato ciascun elemento del gruppo sembra istintivamente fidarsi del senso (organo sensoriale) tramite cui ebbe modo di percepire la presenza di Eghbal, dall’altro lato non riesce a fidarsene “ciecamente” per il fatto stesso di essere rimasto bendato durante le torture e perché dentro di sé sa che troppo forte e alterante è il bisogno inconscio di dare un volto e un nome al colpevole senza volto e senza nome dei segni che si porta dentro e addosso (eppure nel gioco dei ribaltamenti tipici del film è proprio l’ex torturatore Eghbal ad apparire ora sullo schermo ingiustamente catturato, violato, bendato dalle sue ex vittime). Il bisogno psicologico che l’uomo catturato per caso sia Eghbal insieme alla paura che non sia lui (o che sia proprio lui!) unisce intimamente tutti, al contempo generando oscure tensioni in e tra loro.


L’INCIPIT: UN SEMPLICE INCIDENTE
Il primo “testimone” è Vahid, è il meccanico che gestisce un’officina. In una tarda sera Eghbal, ha un piccolo e “semplice incidente” mentre è in viaggio con moglie e figlioletta, L’uomo ha inavvertitamente investito un cane (allegoria del trattamento riservato ai detenuti di Evin trattati e colpiti “come cani”?) ma, dopo essersi fermato per constatare il danno e aver ripreso il viaggio, l’auto si ferma per un guasto.
È ormai notte, Eghbal trova solo un’officina ancora aperta, quella di Vahid. Ad accogliere l’uomo e a prendere in carico l’auto è un suo collaboratore. Ma Vahid, udendo dal piano superiore i passi dell’uomo entrato nella sua officina, comincia a tremare e si nasconde sconvolto. Vahid, lo capiremo solo successivamente, ha riconosciuto dal rintocco e dal suono strascicato della protesi della gamba di quell’uomo il suono che lo tormenta da anni, lo stesso emesso da “Gamba di Legno” che anni prima aveva torturato in prigione lui e alcuni suoi amici e conoscenti (per faccende di cui nel film non si parla mai che si intuisce siano legate alla loro dissidenza verso il regime iraniano). Al mattino seguente, dopo che il suo aiutante ha riconsegnato all’uomo l’auto riparata, Vahid decide di seguirlo di nascosto. Così aspetta il momento opportuno per aggredirlo, lo tramortisce con una pala , lo benda, lo carica sul suo furgone e lo porta nel deserto dove decide, fuori di sé, di infliggergli la più sadica delle morti: la sepoltura da vivo. Lo spettatore non può che empatizzare con il malcapitato che sembra vittima di un tragico scambio di persona e oggetto di una violenza cieca e incomprensibile da parte del meccanico, rimasto parzialmente invalidato dal trattamento subito in carcere. Ma mentre spala terra su Eghbal, che rinvenuto lo implora di fermarsi e di credere alla propria innocenza, Vahid è colto da un dubbio terribile: e se davvero si stesse sbagliando e stesse condannando a quell’orribile morte un innocente, un padre di famiglia, che non c’entra nulla con il suo torturatore? Dunque ci ripensa e dopo averlo nuovamente caricato sul furgone decide di rintracciare le altre vittime delle torture per sciogliere il suo dubbio.


UN ROAD MOVIE SOLITARIO E CORALE
Ha inizio, da questo momento, un rocambolesco e spiazzante road movie di gruppo tra il bailamme del centro di Teheran e gli spazi aperti e ventosi del deserto fuori città (dunque tra la wild land e la metropoli altrettanto “selvaggia”), un road movie erratico e sgangherato (non privo di momenti esilaranti), psicologico e solitario ma al tempo stesso corale e palesemente politico. Vahid rintraccia e “rimorchia” sul suo furgone via via gli altri “testimoni” (in una sorta di staffetta) che si ritrovano volenti o nolenti complici del sequestro compiuto da Vahid, accecati e uniti dal desiderio di vendicarsi del loro aguzzino.
Ma c’è un problema insormontabile: nessuno di loro ha mai visto il proprio torturatore durante le torture, ciascuno di loro lo ha solo “percepito” e lega il proprio ricordo ad un diverso organo sensoriale. Così se Vahid conserva nitido il ricordo acustico e sinistro del suono della protesi di Eghbal, il secondo personaggio del nostro gruppo, una giovane fotografa di matrimoni di nome Shiva, al momento del “riconoscimento” dell’uomo rinchiuso nel furgone, ancora bendato e narcotizzato, viene assalita dalla puzza di sudore emanata dall’uomo e dall’anamnesi olfattiva del trauma. Sente che è lui, ma anche lei non può esserne certa. Così entrambi si rivolgono a una terza persona, proprio alla giovane sposa che Shiva stava fotografando insieme al suo promesso sposo quando Vahid l’aveva rintracciata. La sposa si chiama Golrokh ed è stata anche lei vittima delle torture di Eghbal (successivamente scopriremo che è stata anche stuprata in carcere dall’uomo). Per questo colta dal medesimo istinto di vendetta si avventa sulla cassa del furgone dove è stato nascosto l’uomo e “percepisce” la sua identità dal dis-gusto che le provoca la vista dell’uomo tanto che deve precipitarsi fuori per vomitare. Tuttavia il problema rimane anche per lei: percepisce che è lui ma non può esserne certa e questo aggrava il suo tormento mentre lo sposo, aggiuntosi al gruppo, cerca di dissuaderla da quell’insana impresa invitandola a sfilarsi dal gruppo e dal pericolo che sta correndo alla vigilia del loro matrimonio.

Sarà proprio della ragazza la frase più potente ed emblematica del film: “Se la nostra terra è diventata una prigione, il mondo intero sta diventando una prigione ancora più grande“.
A quel punto il terzetto cercano un quarto uomo, anche lui torturato in passato da Eghbal, è l’ex compagno della fotografa, un giovane nevrotico, logorroico e aggressivo che ha dovuto andare in cura psichiatrica dopo l’esperienza della prigione. È rimasto disoccupato, squattrinato ed emarginato ma è dei quattro l’unico certo dell’identità dell’uomo, quello più intenzionato ad ucciderlo, che a un certo punto prova perfino a scappare via con il furgone e il suo prigioniero, esasperato dai tentennamenti emotivi e morali degli altri componenti del gruppo. A lui è bastato toccare la gamba dell’uomo, le cicatrici sulla pelle (di cui Eghbal si vantava perché le aveva riportate in Siria per difendere la santa causa del regime degli Ayatollah) per riconoscerlo (è il tatto il senso più rivelatore?) perché durante le torture gli era capitato di afferrare quella gamba.
Ironia della sorte sarà proprio lui ad abbandonare per primo il gruppo dopo un litigio con la ex compagna fotografa e uno scontro con il gruppo da lui giudicato “vigliacco” e preda di eccessivi “scrupoli morali”.


L’EPILOGO
Rimarranno solo Vahid e la fotografa Shiva ad affrontare Eghbal nell’ora cruciale della resa dei conti quando, dopo aver portato il prigioniero in un campo e averlo legato ad un ulivo con l’intenzione di regolare i conti una volta per tutte (per ucciderlo o per costringerlo a confessare e a chiedere scusa?) avviene il colpo di scena del film, la rivelazione dell’identità dell’uomo che a dispetto di ogni aspettativa dello spettatore smette di scagionarsi dalle accuse e alternando la paura di morire e di lasciare la propria famiglia con toni di sfida da “martire di Allah” pronto al sacrificio, finisce per confessare la sua identità mutando anche espressioni (sebbene bendato) e tono di voce. Così l’uomo che per tutto il tempo abbiamo immaginato essere una vittima malcapitata di una cieca e implacabile logica del sospetto e della vendetta in grado solo di auto-alimentarsi (senza prove) e avvitarsi in una spirale, si rivela proprio quello che i suoi vendicatori avevano “percepito” fosse, il mostro inumano dei loro incubi.
Ma è proprio in quel momento che avviene una rotazione straordinaria, che De André avrebbe reso con uno dei suoi versi immortali (tratto dalla sua “Buona Novella “): “nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore“. Vahid e Shiva “sentono”, con un senso stavolta più profondo dell’udito o dell’olfatto, ma anche delle proprie paure e dei propri risentimenti, che uccidendolo diventerebbero come il loro aguzzino, perderebbero non solo la dignità delle vittime innocenti ma loro stessa umanità, intuiscono che la loro catena al passato diventerebbe inossidabile e insostenibile. Così riescono a strappare all’uomo le sue scuse, lo costringono a ripeterle fino allo sfinimento e a gridarle tra le lacrime infine lo lasciano andare consapevoli del rischio che corrono.

Rischio che il regista affida all’ultima magistrale sequenza del film che significativamente chiude il cerchio del primo riconoscimento “acustico”: Vahid rientra in casa sua a prendere il corredino per la sorella incinta con il furgone che lo aspetta fuori, quando d’improvviso, alle sue spalle, sente il suono cadenzato e raggelante del passo di Gamba di legno che lo paralizza, un suono che si avvicina sempre di più, finché si arresta e tace.
Cosa significa? Il “passato che non passa” lo ha di nuovo raggiunto e stanato? Eghbal è tornato per vendicarsi e ucciderlo o per salutarlo e ringraziarlo di averlo risparmiato? Non lo sappiamo, il finale resta aperto e sospeso, Panahi non intende svelarcelo, perché evidentemente il punto per lui non è lo scioglimento narrativo della vicenda.
Forse Panahi alla fine vuole solo lasciarci soli con Vahid, nella prigione inevasa della sua mente, soli con i suoi e nostri demoni inesorcizzabili, con le ombre dei dubbi che riaffiorano e ci tengono in scacco, con le nostre ferite aperte e quell’oscuro passato che non chiude i conti con noi, soli ad ascoltare il passo dei nostri fantasmi che si avvicina e si allontana, indefinitamente…
CONCLUSIONE
Un semplice incidente non è soltanto un atto d’accusa all’oscurantismo fanatico e dispotico del regime degli Ayatollah, ma ad un più ampio sistema burocratico – sociale in cui il rigorismo più intransigente e il bigottismo estremo delle istituzioni politiche e della “polizia morale” convivono di fatto e quotidianamente con la corruzione diffusa, la pratica delle mazzette ai funzionari pubblici, alle forze dell’ordine e perfino al personale ospedaliero, in un sistema fondato sulla “doppia verità” e sul “doppio standard”.
Anche in questo senso, fuori dalle prigioni claustrofobiche del regime iraniano, Panahi sta gridando, rivolgendosi alla pancia e alla testa degli spettatori, con sgomento e irriducibile coraggio, ma anche con raffinata maestria e lucida ironia, che la sua terra e il mondo intero visto dalla sua terra (e non solo dalla sua!) stanno diventando, in forme e modalità differenti, un’immensa prigione sotto il cielo.
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