di Girolamo Di Noto

Buffalo ’66 è la storia di Billy Brown, un tipo fuori dagli schemi, un disadattato asociale che ha scontato cinque anni di carcere per un crimine che non ha commesso. Appena uscito dalla prigione, torna nella città natale, Buffalo (New York) e costringe la goffa e introversa Layla (Christina Ricci) a fingersi sua moglie per illudere i genitori di avere una vita normale.
Il primo lungometraggio scritto, diretto, interpretato e musicato da Vincent Gallo è stato giustamente definito “un nevrotico film d’autore” non solo perché si discosta dal punto di vista stilistico dai classici standard hollywoodiani (split-screen al posto dei flashback, inquadrature sbilenche, dialoghi deliranti e ridotti all’osso) ma anche perché riesce a creare uno degli incipit più assurdi del cinema contemporaneo, sospeso tra iperrealismo e commedia grottesca: soltanto Gallo avrebbe potuto introdurre un film che prosegue per i primi quindici minuti con l’affannosa ricerca di un bagno da parte del protagonista.

Il primo giorno della ritrovata libertà comincia da subito con il bisogno impellente di assolvere ad una funzione corporale. È da quando è salito sul bus per Buffalo che Billy la sta trattenendo, un bisogno che lo porterà casualmente in una scuola di danza e qui finalmente si calma, ma per poco.

Telefona alla madre e emerge così la sua vicenda: per tutto il tempo ha fatto credere alla famiglia di lavorare in un altro stato e di avere una vita felice con tanto di bella mogliettina; a Buffalo di passaggio, promette quindi di andarli a trovare con la consorte, ma quale? L’introduzione della ragazza che dovrà reggere ” il gioco ” aggiunge al film stravaganza, poesia ma anche tanta solitudine perché la misteriosa e florida fanciulla bionda dall’aria ingenua che viene trascinata via con gli abiti da ballo è svitata quanto lui, si lascia convincere senza troppe resistenze, affascinata e non certo impaurita da Billy, disposta a tutto pur di accontentare questo sconosciuto che le chiede di fare la parte di sua moglie. Layla non esita ad amarlo senza chiedere nulla in cambio, è meno bastonata dalla vita rispetto a Billy, ma anche lei è sola, desiderosa di dare amore, alla disperata ricerca di tenerezza in un’America di perdenti.

Buffalo ’66 è il ritratto di due solitudini diffidenti che si muovono dentro un paesaggio livido della periferia urbana americana, desolato, popolato da case grigie, motel, piste da bowling e topless bar, è la descrizione dettagliata di due anime accomunate da un identico smarrimento che cercano – come nella scena dolce amara della cabina della fototessera – in “un mondo altro” una normalità che faticano a trovare senza ricorrere alle apparenze: “Ascolta, stammi a sentire, siediti, stiamo facendo delle foto per i miei genitori. È chiaro adesso? Dobbiamo fare delle fotografie come se fossimo una coppia, come due innamorati, come se…come…come marito e moglie, e stiamo sempre insieme, ogni minuto. […] Niente facce del cazzo, niente facce strane, solo io e te innamorati. Chiedo solo questo, fai vedere che sei innamorata di me, tutto qui. Ci riesci?”

Sebbene uniti da una bugia, i due danno vita ad una love story non convenzionale, caratterizzata da silenzi volti a enfatizzare l’incomunicabilità, da rabbia, malinconia, in cui emerge da un lato la difficoltà da parte di lui di avere relazioni, di farsi toccare e dall’altra, da parte di lei, una spinta attrattiva, una voglia di reagire allo sconforto di trovarsi di fronte ad un’umanità perdente e mostruosa, rappresentata in particolar modo dai genitori di Billy.

La mamma (Anjelica Huston) è tifosa dei Buffalo e non perde occasione per far notare a Billy di essere venuto alla luce nel giorno della sconfitta dei suoi beniamini alla finale del Superbowl; il padre (Ben Gazzara), mancato Frank Sinatra, con il pallino di mangiare alle due in punto, parla poco ed è convinto che il figlio lo farà secco prima o poi: un nucleo familiare nevrotico e per nulla rassicurante, lontano dal prototipo della famiglia “bene” americana, anafettivo e distante anche quando il figlio si presenta – soprattutto nella scena esilarante della cena – apparentemente come una persona che ha trovato il proprio posto nel mondo.

Vincent Gallo è abile nel riuscire a dare importanza ad ogni singolo dettaglio, a sottolineare con un realismo impietoso la fragilità di esistenze stanche e sconfitte dalla vita e quando mette da parte lo sguardo ruvido della realtà, lascia spazio all’immaginazione, sia nel bene che nel male, sia quando vuole appagare i suoi desideri inconsci di vendetta nei confronti di chi lo ha fatto finire in carcere, sia nei momenti più surreali, in particolare nella scena del balletto di Layla nella sala da bowling accompagnata dalla musica dei King Crimson, un momento di poesia che qualcuno ha definito felliniana per l’atmosfera fiabesca e per la grazia con cui la ragazza esegue il tip tap, infondendo nell’abbaglio di luce che la pervade, una vera danza d’amore.

Gallo riesce a creare un film d’autore unico, sa analizzare la psiche contorta di un uomo che alterna momenti di follia crudele con un’insicurezza che suscita commozione, sa ben scandagliare lo sguardo assente di chi è consapevole che la prigionia anche nella libertà non é mai finita, sa raccontare il disagio, l’essere fuori posto, ma è anche attento a sottolineare l’unico luogo che, per un inquieto come Billy, può farlo sentire a casa, ovvero il bowling, luogo americano per eccellenza, che non può che rimandare inevitabilmente ad un altro film girato nel 1998, Il grande Lebowski dei Coen. Se il bowling per Drugo costituisce una situazione privilegiata in cui poter seguire le sue osannate regole, un posto dove starsene tranquillo a chiacchierare con gli amici e essere protagonista tra tornei e rivincite, per Billy è un rifugio dove trovare conferme (l’unico posto in cui qualcuno lo aspetta conservando la sua attrezzatura).

Un’opera toccante e profonda, un piccolo gioiello del cinema indipendente americano che va riscoperto e rivisto, ritratto sincero di due solitudini avvinte in un eccentrico e romantico rapporto.

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