di Girolamo Di Noto

Accostarsi ad un regista come Friedkin, ad un suo film in particolare come Il braccio violento della legge, così convulso, adrenalinico, significa prima di tutto imbattersi in un’inquietudine costante, nel continuo vivere sempre sul filo del rasoio, accompagnato da un’inevitabile catastrofe, da un’ineludibile caduta nel vuoto.
Nessun eroe, nessun lieto fine: il cinema del regista di Chicago, da poco scomparso, non rassicura, non colloca i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ma li mescola nell’assenza disarmante di una distinzione precisa tra Bene e Male, al punto da impedire allo spettatore di identificarsi con uno dei personaggi.

Il cinema di Friedkin è stato caratterizzato dalla presenza di volti, facce comuni, individui sottoposti a prove eccezionali, che inseguono e sono inseguiti, che tradiscono e vengono traditi, trascinati da un’ossessione, un desiderio spasmodico di trovare la verità che li porta sempre sul punto di perdere l’equilibrio e precipitare nel baratro.

Il braccio violento della legge riflette in pieno questa poetica: è tutta un’avventura fatta di fughe, inseguimenti, nascondimenti, attese, una ricerca che non conclude, una battuta di caccia ambientata nell’intrico di strade, incroci, cavalcavia, linee metropolitane di una New York gelida e inospitale, che vedremo immortalata nel suo apice in Taxi driver di Scorsese qualche anno dopo, ma che già adesso rivela, grazie alla fotografia di Owen Roizman, un paesaggio metropolitano lercio, dai toni desolanti, in balia del crimine.

Il film si ispira ad una storia realmente accaduta: la scoperta casuale di un traffico di eroina tra Marsiglia e New York da parte di due poliziotti, Jimmy Doyle detto Popeye (Gene Hackman) e Buddy Russo detto Cloudy (Roy Scheider). Tratto dal libro di Robin Moore che ricostruisce le imprese di due poliziotti della Narcotici di New York, Eddie Egan e Sonny Grosso, il film, scarno di contenuti, si concentra principalmente sulle immagini, tanto che metà pellicola è priva di dialoghi. Ciò che a Friedkin interessa è delineare “la linea sottilissima che divide i criminali dai poliziotti”, il maniacale accanimento di Doyle nel dare la caccia a Charnier (Fernardo Rey), l’imprendibile preda.

Friedkin trascorse un anno nelle ricerche per il film, che lo portarono nei quartieri più sordidi di NewYork, vivendo a stretto contatto con Egan e Grosso. Al primo incontro con Friedkin, Egan gli disse: “Non importa quanto resterai con me o quanto bene arriverai a conoscermi, scoprirai che ci sono solo tre cose di me che ti servirà sapere: bevo birra, scopo le puttane e spacco le teste”.
La figura di Popeye si distingue non solo dal più sobrio e controllato collega, ma anche dai criminali che combatte, quasi confondendosi con loro, anzi in diverse circostanze si assiste anche ad un capovolgimento dei valori, al punto che lo si ritiene dalla parte della ragione solo perché possiede un distintivo, non per altro.

Se Charnier, che rappresenta il Male, incarna tutte le qualità che la gente è abituata a considerare virtuose (è devoto alla moglie in Francia, è elegante, raffinato), Doyle, invece, non ha gusto, né fascino, è violento con le donne, estorce spiate con metodi non proprio legali.
È un cinema di contrasti, quello di Friedkin, apertamente caratterizzato dalla lotta struggente tra Bene e Male, luce e oscurità, controllo e irrazionalità, aspetti che emergono non tanto dai dialoghi ma dalle azioni: gli agenti sono afflitti da dubbi, frustrazioni, attendono al freddo mosse sbagliate, mangiano pezzi di pizza gommosa e bevono caffè disgustosi che rovesciano per terra, dall’altra parte emergono invece l’elevato tenore di vita dei trafficanti, la loro maggiore calma nell’affrontare situazioni difficili e questa forma di autocontrollo mista a sangue freddo viene incarnata principalmente da Charnier e sintetizzata nella celebre scena che segue uno dei tanti inseguimenti, quella della mano guantata di Rey che saluta in modo sarcastico da dietro il finestrino della metro il malcapitato agente.

Un sorriso beffardo che non ha paura di mettere in mostra l’agghiacciante percezione di avere il nemico in pugno, il bersaglio a due passi, davanti agli occhi e la consapevolezza nello stesso tempo di esserne spossessato. Come Harry Caul de La conversazione di Coppola, altro grande personaggio interpretato da Hackman, sarà alle prese con un’ossessione, anche Doyle, mentre si accinge alla verità , si scontra con la sua etica professionale e si trova coinvolto emotivamente nel suo lavoro. Mette a repentaglio la vita di passanti e automobilisti, spara e uccide un collega per sbaglio perdendosi nel buio, cerca di braccare Charnier in un continuo dentro e fuori le porte, è un segugio che sente l’odore della preda e si muove in una caccia inesausta fino alla follia, con le ossa a pezzi e l’animo inappagato.

Friedkin è straordinario nel creare un poliziesco convulso, che mescola azione e introspezione: insieme a Don Siegel, regista di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, ridefinisce i parametri del genere. Il poliziotto non è più l’eroe integerrimo e leale, non è il cavaliere solitario che rimette a posto le ingiustizie, rimane sì solitario ma è travolto dal flusso degli eventi e vaga nel vuoto, spara nel buio, costruisce una rete a cui resta impigliato lui stesso.
Il braccio violento della legge, con il suo taglio documentaristico e nichilista, con il suo realismo visionario, diventa un’avventura metafisica, fatale nella sua inconcludenza, propria di un uomo che non esce sconfitto ma almeno in pace con sé stesso, ma perennemente inquieto, alle calcagna di un fantasma, tra le strade buie o troppo assolate di una città ostile o nelle stanze semivuote immerse nell’oscurità, alle prese con il Male che, se è vero che non trionfa del tutto, è ben lungi dall’arrendersi.

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