L’Agnese va a morire, di Giuliano Montaldo (Italia/1976)

di Girolamo Di Noto

Ricordare Giuliano Montaldo, il grande regista italiano appena scomparso, significa soprattutto rievocare alla memoria il suo incessante impegno politico e sociale che lo ha portato ad affrontare temi complessi come l’ingiustizia, la lotta dell’individuo contro il potere, l’intolleranza diventando uno degli autori più impegnati della storia del nostro cinema.
Tra i tanti film che ha diretto, colpiscono in particolar modo quelli caratterizzati da insensate condanne a morte: quella xenofoba all’indirizzo degli anarchici Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati ingiustamente di omicidio negli Stati Uniti negli anni ’20 quella dell’inquisizione contro il filosofo Giordano Bruno, due film magnificamente interpretati da Gian Maria Volonté,
Ma il film che racchiude già nel titolo l’ineluttabilitá del destino, il coraggio, l’insensatezza di un crudele accanimento contro una vita umana è senz’altro L’Agnese va a morire, trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Renata Viganò, che affronta il tema della Resistenza dal punto di vista di una donna.


Forte del suo impegno civile, Montaldo riprenderà una delle opere più limpide e convincenti scritte sui partigiani, ponendo l’attenzione ai marginali della Storia, persone comuni segnate dall’anonimato, in cui convivono forza e sofferenza, paura e perseveranza, senso del sacrificio e generosità.
Montaldo trascrive con toni antieroici il celebre romanzo, affidando al volto bergmaniano di una straordinaria Ingrid Thulin il ruolo della lavandaia analfabeta della bassa padana che, dopo aver perso il marito, diventa una figura di rilievo per i partigiani coordinando trasporti di viveri, messaggi, esplosivi. Agnese non ha nulla dell’eroina: è una donna che ha passato da tempo la mezza età, è una popolana che non si è mai interessata alla politica e aderisce alla Resistenza spinta dall’onda emozionale per la perdita del marito e dalla sensazione di essere dalla parte della ragione.
È una donna pragmatica, senza figli, ma assiste i partigiani, fa per loro tutto ciò che farebbe una buona madre: a quei ragazzi così giovani da poter essere veramente figli suoi, costretti dalle circostanze a sacrificare gli anni più spensierati, ” mamma Agnese ” offre conforto, comprensione, un consiglio, una parola gentile, sorrisi di incoraggiamento, sguardi di solidarietà. Agnese non è madre ma è proprio in virtù della sua aria rassicurante da ” mamma ” che la rende insospettabile dal nemico.


Montaldo è abile nel saper raccontare storie di persone normali che, trovandosi in situazioni eccezionali, scoprono di avere risorse ed energie che non pensavano di possedere. Non si tratta però di evidenziare atteggiamenti superomistici, carichi di individualismo sfrenato, ma sottolineare situazioni quotidiane non raccontate nei libri di storia, eppure fondamentali nella vita di una persona quali il patire la fame e il freddo, la stanchezza e il dolore, la paura e la fatica. Il regista lascia la Seconda guerra mondiale sullo sfondo: a parlare non sono date, battaglie e fatti storici ” ufficiali “, ma i corpi dei soldati, delle donne. Ciò che a Montaldo sta a cuore è esaltare una donna chiamata a combattere i tedeschi assieme ai partigiani, ovvero un esercito senza divisa, senza squilli di tromba, senza battute di tacchi.
Una donna che vuole fare del bene, in qualsiasi circostanza, orgogliosa di servire il caffè come di offrire messaggi importanti in missioni più delicate.
Seguendo il quotidiano agire di Agnese come staffetta prima e responsabile di altre staffette poi, Montaldo si concentra sull’impegno costante e non meno pericoloso di centinaia di donne che con i loro spostamenti rendevano possibili le missioni degli uomini, inoltre ha la capacità di raccontare la presa di coscienza di una donna semplice che,inizialmente di fronte ad un invito ad unirsi ai partigiani, risponde schermendosi dietro l’affermazione: ” Sono cose da uomini “, poi finirà coll’indirizzare le sue giornate ad una causa che fino a quel momento le era estranea, acquisendo una coscienza civile e antifascista.


La conquista di una maggiore consapevolezza di sé va di pari passo con la perdita delle cose più care, ma questo non la scuote, non si tira indietro nonostante il rischio di morire. Intorno a lei, il regista si concentra sui volti, sulle espressioni, sui corpi di numerosi personaggi che appaiono per poi scomparire repentinamente: in particolare emerge la forza d’animo e la sensibilità del Comandante ( Stefano Satta Flores ), che di giorno in giorno deve essere medico, amico,abile stratega, l’audacia di Tom ( Michele Placido ), l’allegra follia di La disperata ( Ninetto Davoli ) che incarnano le molteplici soluzioni per resistere, dalla guardia che avvisa dell’arrivo dei nazisti alla disponibilità di ospitare. Ma a prendere il sopravvento, a fare da collante è sempre lei, Agnese, che con i suoi gesti semplici, pratici acquista un’identità sempre più forte, testimoniata anche dal fatto che resta l’unico personaggio a mantenere il proprio nome anche nel passaggio alla clandestinità.


Un’identità forte ma che sarà destinata a morire, una donna che inforcherá la sua bici per andare in guerra per poi tornare nel nulla da dove è partita, ma il suo sacrificio potrà servire soprattutto se si tengono in mente le parole che dice la donna quasi nel finale del film: “Mea son vecia, e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa, e potrete dire quello che avete visto, quello che avete fatto. […] Perché vivi o morti, i compagni restan sempre compagni, anche quelli che non erano niente come me”.
Un invito a non dimenticare, un monito che impedisca al “mucchio di stracci neri sulla neve” di essere inghiottito nella voragine dell’anonimato, che Montaldo, da protagonista indiscusso del cinema popolare e militante, non si lascerà sfuggire, offrendo alla memoria una donna di grande spessore, indimenticabile come gli altri personaggi dei suoi film.

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