Di Girolamo Di Noto

Se il cinema è emozione, se appartiene ad un mondo ove possibile e impossibile si coniugano, se è pittura in movimento, ebbene queste considerazioni non possiamo non evidenziarle quando si guarda un film di Mizoguchi, il regista giapponese che, assieme a Ozu e Kurosawa, ha meglio saputo ritagliarsi uno spazio importante nella storia del cinema mondiale.

C’è sempre qualcosa di grandioso e superlativo in una sequenza o anche solo in un’inquadratura di un film di Mizoguchi, c’è sempre la manifestazione di un sottile e oscuro incanto che rapisce gli occhi. Tra i tanti “quadri” che compongono il capolavoro del regista nipponico, in I racconti della luna pallida d’agosto, la sequenza in cui i protagonisti del film, un vasaio (Masayuki Mori) e un contadino (Sakae Ozawa) attraversano il lago Biwa in cerca di fortuna, si segnala come un momento di commozione altissima, che rapisce lo spettatore in un turbinio di sensazioni perturbanti, che suggeriscono una realtà mentre ne presentano un’altra, partendo da uno scenario di vivo realismo ad un altro onirico, sovrannaturale. Nel silenzio ovattato della nebbia, i due protagonisti sognano ad occhi aperti il proprio futuro: Genjuro diventa avido e si lascia prendere dall’ambizione sfrenata di arricchirsi con i propri vasi al punto di dimenticare la propria famiglia per lanciarsi nelle braccia di una donna misteriosa, mentre suo cognato Tobei è talmente ossessionato dalla voglia di diventare un samurai da abbandonare la moglie per poi ritrovarla prostituta in un bordello.

Due storie speculari che invitano a riflettere sulla superbia, sulla vanità e sulla malinconica consapevolezza della brevità e illusorietà di ogni cosa. Leone d’argento al Festival di Venezia nel 1953, I racconti della luna pallida d’agosto è tratto da due novelle di Akinari Ueda ( L’albergo di Asaji e La lubricitá del serpente, pubblicate nel 1776 ). Mizoguchi rimuove gli elementi orrorifici, ricavando una storia di sentimenti umani che oscilla tra il reale e l’irreale, tra la realtà e l’apparenza, finendo con il mostrare un film realista e visionario, caratterizzato da un mondo, quello del Giappone del XVI secolo, scosso da guerre civili, bande di delinquenti, pirati nascosti tra le nebbie e un’altra “realtà” che si appropria di un’atmosfera di sogno, di figure fantasmatiche tentatrici, di donne strappate ai loro affetti che decidono per un breve lasso di tempo di tornare dal mondo dei morti per riprendere la loro vita.

Se Todorov, nel suo saggio La letteratura fantastica, definì il fantastico in termini di “esitazione” e “incertezza”, per cui quando si verifica un avvenimento che non è possibile spiegare con la ragione esitiamo, viviamo nel regno dell’indefinitezza, Mizoguchi fa vivere i suoi personaggi in un’atmosfera incerta, oscura, illusoria. La scena già citata dell’attraversamento del lago da parte dei protagonisti del film ne è un esempio significativo: ad un certo punto compare nella nebbia la barca di un pescatore in fin di vita che li mette in guardia dalle aggressioni dei pirati. L’incontro prepara il terreno all’universo di incertezza e esitazione in cui di lì a poco verranno proiettati i due uomini e gli stessi spettatori.

Mizoguchi è straordinario nell’utilizzare delle tecniche di messinscena che raffigurano l’atmosfera di passaggio tra le cose terrene e quelle ultraterrene. L’incontro tra il vasaio e Wakasa, la donna fantasma, è tutto rappresentato attraverso giochi di illuminazione, luci e ombre, fiamme tremuli e illusorie di candele e lanterne. La donna tentatrice, che appare tra veli bianchi, i cui gesti e la postura contano più di mille parole, è raffigurata inizialmente solo come un’ombra nel buio di una stanza, infine mostra il volto, illuminato da una candela. L’abilità del regista sta nel raffigurarla come uno spettro che ammalia, una femme fatale del genere fantastico, una sorta di maga Circe destinata a sparire con la stessa rapidità con cui è apparsa. Mizoguchi ha sempre fatto sì che i personaggi femminili fossero il perno di ogni suo film: attraverso la loro condizione ha saputo meglio rappresentare l’ingiustizia, l’infelicità.

Indimenticabile il ritratto di O’Haru ne La vita di O’Haru, donna galante, del 1952, così come colpisce la galleria di personaggi di prostitute ne La strada della vergogna, il suo ultimo film, del 1956. Ma sarà ne I racconti della luna pallida d’agosto che meglio verrà catturata l’identità della donna, non donna oggetto ma comunque sottomessa: non solo Wakasa, figura dalla sessualità intensa, ma anche Ohama, la moglie del contadino che aspira a diventare samurai, e Miyagi, la moglie del vasaio, che nel finale torna per una notte dalla morte.

Miyagi e Ohama sono madri coraggiose e amorevoli, piene di dedizione e bontà, mogli fedeli e sagge, tuttavia sono delle Cassandre che non vengono credute, vorrebbero invitare i loro mariti a desistere dalle loro spropositate ambizioni, ma non sono ascoltate e vivranno confinate nei loro spazi ristretti, andando incontro a miseri destini.

Il film di Mizoguchi è una delle punte più alte del cinema mondiale perché racchiude riflessioni sulla fugacità della vita, sul rapporto complesso tra realtà e bellezza, sul desiderio di superare i propri limiti, ma soprattutto perché contiene immagini di stupefacente bellezza, di incanto per gli occhi, che ora vedono o credono di vedere una sequenza realistica, ora sono alle prese con immagini oniriche e fantastiche. La scena del ritorno a casa di Genjuro, in tal senso, è struggente e spiazzante: prima viene mostrata la casa semidistrutta, vuota, poi il protagonista, come per incanto, entra in un luogo arredato, con la moglie ad attenderlo. Una breve illusione, un ennesimo miraggio, un’ulteriore dimostrazione di depistaggio da parte del regista: la donna è una figura ormai sospesa tra i fantasmi del passato, una “magnifica presenza” che condurrà il marito a rendersi conto troppo tardi del suo errore. Una delle innumerevoli scene indimenticabili del film, capolavoro indiscusso della settima arte, esempio visivo di stile sublime ed elegante.

Lascia un commento