di Girolamo Di Noto

Ci sono film che mostrano quanto sia labile il confine tra verità e bugia, tra oggettività e parzialità dello sguardo, tra obiettività e molteplicità di diversi punti di vista. Rashomon, ad esempio, uno dei tanti capolavori di Akira Kurosawa, è stato da sempre considerato come un’impareggiabile parabola sulla relatività della verità, uno dei primi esempi di cinema a fornirci una molteplicità mai uguale di punti di vista che si richiamano ad un’unica storia. Alla pari di Kurosawa, un altro regista giapponese, Kore’eda, con il suo ultimo film, L’innocenza, racconta una storia intrisa di relazioni familiari complicate, bullismo, infanzia abbandonata, scoperta della sessualità, non in modo lineare, ma a strati, un’intricata matassa di eventi che sembrano trovare spiegazioni, facili soluzioni ma che poi inevitabilmente vengono messe in dubbio non appena si passa ad un differente punto di vista, ad un diverso sguardo di prospettiva.

Vincitore a Cannes del premio come migliore sceneggiatura, impreziosito dall’ultima colonna sonora di Ryūchi Sakamoto, morto poche settimane prima dell’anteprima del film, L’innocenza racconta la storia di Minato (Soya Kurosawa), ragazzo di 11 anni che vive con la madre vedova (Sakura Ando). La tranquillità della loro vita viene scossa quando Minato inizia a comportarsi in modo strano. È triste, torna da scuola sempre avvilito. La madre, preoccupata, sospetta che la causa del disagio del figlio sia un insegnante (Heita Nagayama) e decide di indagare. Tuttavia, la verità si rivelerà essere molto più complessa e toccante, distante dalle apparenze iniziali.
Come spesso accade nei film di Kore’eda, ciò che sembra ovvio e scontato si trasforma in qualcos’altro e il regista sembra quasi divertirsi a mescolare le carte, invitando lo spettatore a scardinare i preconcetti, a mettere da parte i pregiudizi e a non lasciarsi ingannare dall’apparenza e da giudizi affrettati. Del resto, rispetto al titolo italiano, quello originale, Monster, disorienta, sembra preludere a minacciose atmosfere horror, già richiamate nelle prime immagini confuse e buie dei piedi di un bambino che avanza a fatica tra gli arbusti.

Quando la madre andrà a scuola per conoscere – o meglio – per vedere confermare le ragioni del malessere del figlio, sarà accolta da una strana preside (Yuko Tanaka), traumatizzata per la morte della nipote, da insegnanti che meccanicamente si inchinano e leggono frasi di circostanza per scusarsi, da bambini che scorazzano per l’Istituto che parlano di atti di bullismo, da un bambino, in particolare, Yori (Hinata Hiragi), di cui si dice sia stato impiantato il cervello di un maiale. Ci sono gli ingredienti di un horror quasi angosciante- la scena in cui gli insegnanti sciorinano scuse preimpostate, mentre la preside ripete formule retoriche e burocratiche, è davvero inquietante e ridicola allo stesso tempo, così come potrebbe sembrare – se ancorati alla realtà – una normale vicenda di disciplina scolastica, una storia di bullismo così come se ne raccontano tante al cinema, invece la bellezza e l’originalità di questo film sta nel fatto che vengono seminati finti indizi, suggerite false piste, finendo col diventare una riflessione sulla fragilità dello sguardo perché la stessa storia raccontata da diversi punti dì vista offre versioni differenti filtrate dalle diverse percezioni soggettive.

A quale verità dobbiamo credere? A Yori che conferma i maltrattamenti su Minato dal maestro Hori? Al maestro che denuncia angherie da bullo perpetrate da Minato su Yori? Chi sono i mostri? Forse l’insegnante, già bollato per essere stato visto frequentare un bar per adulti, apparentemente colpevole di abusi o la preside che ha cercato di tenere nascosta la vicenda per non rovinare la reputazione della scuola o lo stesso Minato, accusato di bullismo o Yori, che a detta del padre, è un “mostro” a cui è stato trapiantato il cervello di un maiale?
“Le persone – ha detto Kore’eda in un’intervista – tendono a considerare mostruoso ciò che non comprendono. Un celebre modo di dire giapponese ammonisce sul fatto che quando chiudendo una camicia si infila il primo bottone nell’asola sbagliata, si abbottona male tutto il resto. Un errore di valutazione, un pregiudizio possono produrre gravi danni “.
Ecco, il vero mostro, sembra volerci dire il regista, da cui dobbiamo stare lontani è il pregiudizio: partire con il piede sbagliato può spesso trasformare un piccolo errore in un irreparabile disastro.
Quali sono le ragioni del malessere di Minato? Perché il suo compagno di classe Yori è convinto di essere un mostro?
Rispetto a Rashomon, Kore’eda non nega la possibilità di scoprire la verità, evidenziando piuttosto le conseguenze negative del pensiero dominante di una società ossessionata dal bisogno disperato di salvare le apparenze o la reputazione prima di tutto.
Ciò che più interessa al regista è ritrarre con potente sensibilità l’intenso rapporto tra i due bambini, quello sguardo infantile che va al di là delle barriere sociali, che vuole liberarsi da una realtà opprimente e che cerca rifugio in un luogo sospeso tra realtà e immaginazione, al riparo dei soprusi e dai giudizi feroci degli adulti. In un luogo dove “se non si può dire il proprio dolore, bisogna trovare il modo di soffiarlo via”.

Kore’eda è straordinario nell’usare una narrazione a strati per esplorare i confini tra bene e male, colpa e innocenza, soffermandosi in particolare sulla dicotomia tra il mondo degli adulti, rintanati chi in una trincea di cortesia di facciata, chi in una verità che salvaguarda il proprio tornaconto e quello genuino dei bambini, tutto teso a cercare la felicità e a superare le difficoltà per farsi accettare.
L’innocenza finisce con l’assumere, strato dopo strato, le sembianze dì uno straordinario racconto di formazione, profondo, lirico, intriso di umanità che vede protagonisti due bambini alle prese con la crescita e la scoperta della sessualità, portatori di sentimenti autentici che non possono essere disciplinati, non possono vivere dentro schemi precostituiti, sentimenti raccontati con la sensibilità e la maestria di cui solo un grande cineasta come Kore’eda può essere capace.

Hirokazu Kore’eda sforna capolavori. L’idea, i colori, la fotografia: Kore’eda riesce a catturare quello che al cinema giapponese contemporaneo sfugge. “Un affare di famiglia” (万引き家族, 2018) e “Father and Son” (そして父になる, 2013) sono i miei preferiti, “L’innocenza” ancora mi manca: da recuperare assolutamente!
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