Di Girolamo Di Noto

È spesso riduttivo accostare un film ad una tematica ben precisa. Se si afferma che alla base del film di Tawfîq Sâlih, Gli ingannati, si può individuare il tema, purtroppo ancora molto attuale, dell’immigrazione clandestina, va precisato che il film è molto di più. Ad esempio, è il ritratto impietoso di un paese, la Palestina, umiliata e offesa, privata di qualsiasi prospettiva, messo in luce a dieci anni dalla “Nakba”, l’esodo palestinese dai territori diventati israeliani nel ’48, ma è anche un lucido capolavoro di straziante attualità poiché nella storia dei tre palestinesi che cercano disperatamente di entrare clandestinamente in Kuwait per trovare una vita migliore, si racchiude il destino di tutti coloro che sono costretti a fuggire da ” paesi di mala sorte e mala storia”, come direbbe lo scrittore Vincenzo Consolo, verso luoghi di speranza, verso terre ardentemente vagheggiate.

Tratto dal romanzo Uomini sotto il sole, edito da Sellerio, dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani e riproposto da RaiPlay nella versione restaurata della Film Foundation di Martin Scorsese e dalla Cineteca di Bologna, Gli ingannati è uno straziante affresco d’emigrazione e disperazione che vede protagonisti tre rifugiati in Iraq, il maturo Abu Qais ( Mohamed Kheir Halouani), il giovane Asad (Bassan Lofti Abou Ghazada) e il ragazzo Marwain ( Saleh Kholoki) che sognano di fuggire da Bassora, dove non trovano lavoro, verso la ricchezza e la prosperità del Kuwait.

Il film segue i preparativi, le separazioni dalle famiglie, il viaggio in condizioni ambientali impossibili. L’unico modo per superare la frontiera, senza essere scoperti, è quello di nascondersi nella cisterna vuota e incandescente di un automezzo: riusciranno ad esaudire i loro desideri, a varcare la soglia e a trovare una vita senza angustie?

Vincitore del Tanit d’or alle Journées Cinematographiques de Carthage del 1972, bloccato in Tunisia dopo tre giorni di programmazione in seguito alle proteste degli Emirati Arabi, il film di Sâlih rappresenta una rara testimonianza di un cinema che custodisce dolore e fatica, un cinema realista e simbolico allo stesso tempo poiché dietro le storie di questi tre personaggi che soffrono e sperano si reclama a gran voce tutta quella umanità a cui è negata la giustizia, si racchiude il nomadismo del popolo palestinese errante e senza terra e la tecnica che il regista utilizza per meglio sottolineare la sofferenza mista al desiderio di non arrendersi è il flashback: a questo stratagemma ricorre non solo per darci informazioni su ogni personaggio, ma anche per dirci qualcosa di più sul ” prima “, su ciò che ha indotto i tre uomini a rischiare tutto per seguire il sogno di una vita normale.

Due forti sentimenti vengono mostrati con uno stile che nulla o poco concede alla spettacolarità: la pena e la speranza. Pena per l’abbandono della patria, speranza per il luogo che desiderano raggiungere. Soli, perseguitati, impotenti, tormentati dai ricordi di una felicità perduta per sempre, i tre uomini accettano di caricarsi sulle spalle tutti i loro anni e fuggire per il deserto, alla ricerca di un pezzo di pane. C’è chi sogna un futuro migliore per sfuggire un matrimonio combinato dai genitori, c’è chi vorrebbe vivere spensierato, ma si ritrova a capo della famiglia dopo l’abbandono del padre, c’è chi vede nel Kuwait una sorta di luna ariostesca dove trovare tutte le cose perdute.

Come ne Il cammino della speranza di Germi anche in questo film dilaga la miseria, emerge la necessità di partire, trovano spazio uomini senza scrupoli che pretendono cifre folli per andare oltre il confine, ma rispetto al film italiano quello di Sâlih non racchiude un itinerario di redenzione ma è sostanzialmente la storia di un fallimento che nella parte finale si carica di una tensione notevole che ha fatto giustamente accostare l’opera ad un allucinato realismo. Ogni inquadratura, soprattutto nella seconda parte del film, coinvolge lo spettatore e lo immerge nel calore opprimente e nell’angoscia dei protagonisti. La fisicità dei corpi, il disorientamento, le gocce di sudore che si squagliano sulla lamiera del camion, il sole che rovescia addosso la sua fiamma senza tregua sono immagini di un film che non lascia respiro, che vede protagonisti uomini che cercano di resistere alla polvere che si insinua nei loro occhi e nei loro corpi, al caldo infernale e cercano di andare avanti con risoluta ostinazione nonostante l’orizzonte resti un insieme di linee dritte, malgrado il deserto non lasci miraggi di ulivi, vitigni, aranci ormai persi nei ricordi.

Abu, Asad e Marwan, mentre il camion continua a viaggiare sulla terra infuocata, sognano una vita senza più umiliazioni e sventure, una casa diversa dalla capanna di fango e anche chi li accompagna è immerso in pensieri illusori come il volersi riposare, stendersi all’ombra; Abu’l Khalzuran ( Abderrahman Alrahy), l’uomo su cui i tre personaggi ripongono tutta la fiducia, è un uomo schietto, dice le cose francamente, “La prima cosa che imparerai è: prima i soldi, poi la morale’, e questo pensiero troverà la sua messa in atto nel passaggio che offre, che non ha nulla di solidale ma è solo ristretto alla voglia di avere “un sacco di soldi, molti di più, molti di più”, è un uomo cinico e pratico, beffato anche lui dal destino, immerso, come gli altri, in uno spoglio bagliore bianco senza fine.

Il film si apre con un uomo che cammina sotto il sole in pieno deserto, si chiude con il primo piano di una mano che invoca salvezza, l’ultimo irrigidito e disperato gesto di chi cerca aiuto, urlo senza fine, ultimo vagito di vita, di una speranza bruciata nel ventre rovente d’una metallica cisterna. Un’opera da riscoprire di un cineasta apolide e più volte censurato, esempio di cinema che si fa specchio della memoria, un inno di bruciante attualità che celebra tutti gli ingannati e i migranti della terra.
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