Tromperie – Inganno, di Arnaud Desplechin (Francia/2021)

di Girolamo Di Noto

Trasferire Philip Roth al cinema non sempre è stata un’operazione riuscita: spesso si sono accumulati fallimenti o risultati modesti. Si pensi, ad esempio, al poco incisivo The Humbling di Barry Levinson, tratto dal romanzo L’umiliazione o ad un buon prodotto medio hollywoodiano, ma nulla di più, come La macchia umana di Robert Benton, per non parlare dell’adattamento di un romanzo denso e complesso come American Pastoral, portato al cinema da Ewan McGregor, il quale finisce col rendere troppo semplificate le pagine del romanzo, sminuendo i rovelli umani dei protagonisti.

Philip Roth è uno scrittore arduo da filmare: come nell’atto della traduzione una restituzione perfetta dell’opera originale rimane sempre una chimera, non fosse, come scrisse il poeta Giorgio Caproni, “che per l’inevitabile usura che le parole, come le monete, subiscono attraverso il cambio”, così resta difficile trasferire le pagine di un libro in immagini. Un regista che, invece, è riuscito, con ottimi risultati, a illustrare la scrittura di Roth è stato il francese Desplechin che, nel mettere in scena Tromperie – Inganno, adattando con Julie Peyr uno dei romanzi più cerebrali dello scrittore newyorkese, Deception, ha saputo interpretare il libro, restando fedele, senza per questo dover annullare la propria personalità.

Il film racconta la storia, ambientata nel 1987, di Philip (Denis Podalydés), scrittore ebreo americano trasferitosi a Londra con la moglie (Anouk Grinberg), che incontra nel suo studio la sua amante (Léa Seydoux), una donna inglese sposata e madre di un bambino. In questo luogo quasi atemporale fanno l’amore, parlano ininterrottamente, lui prendendo appunti per un libro, lei lamentandosi della sua vita coniugale. Parallelamente, in una strana sospensione temporale, tra sparizioni e ritorni della donna, intorno all’uomo si materializzano ricordi di altre donne: una giovane esule cecoslovacca (Madalina Constantin), un’amante di New York (Emmanuelle Devos), malata di tumore, un’ex studentessa (Rebecca Marder), talentuosa, caduta in depressione. Scoperto dalla moglie che ha trovato i suoi appunti, Philip si difende dall’accusa di adulterio dicendo che il suo io letterario non corrisponde per forza a lui e che la donna di cui si parla è un’invenzione.

Girato principalmente in interni abitati da due personaggi che dialogano, il film esalta prima di tutto la parola, che emerge con prepotenza nel confronto serrato tra i protagonisti: parole pronunciate prima o dopo aver fatto l’amore, parole che vengono riportate in un taccuino, parole che confortano, seducono, rassicurano come quelle dette a Rosalie che ha paura di morire, infastidiscono come quelle scoperte dalla moglie che non vorrebbe che si materializzassero in un libro. “Penseranno che sei tu; che figura mi fai fare?”, parole che cercano di spiegare l’inspiegabile, descrivere la realtà, giustificarsi, come quelle che utilizza lo scrittore per trarre in inganno la moglie richiamando l’attenzione sul fatto che “nel mio studio non ci sono donne ma solo i personaggi dei miei libri “.

Tutti sono alla ricerca di risposte impossibili da trovare: “Com’è che ci si innamora?”, “Sarebbe come chiedersi perché nevica”, nessuno dei personaggi è al suo posto: l’amante inglese ha un marito che non ama ma è incapace di slegarsi dal matrimonio, Rosalie non vorrebbe trovarsi in un ospedale, la donna cecoslovacca esiliata dal suo paese, la moglie di lui, sperduta per i ripetuti tradimenti, non avrebbe mai voluto leggere il taccuino e lui, sempre in bilico tra la dimensione letteraria e la vita che la nutre, ingabbiato in un matrimonio infelice, alle prese con il suo insaziabile appetito di scrittore.

Nel film non ci sono che bocche che parlano, orecchie che ascoltano, occhi che esprimono curiosità, desiderio, panico: se Philip cerca di parlare poco preferendo ascoltare, carpire il senso profondo della vita delle sue donne, entrare nella loro sfera emotiva, le sue interlocutrici si confessano, danno vita a conversazioni appassionate, si sfogano, si raccontano facendo emergere ora una ritrovata giovinezza, ora il desiderio di reclamare la loro libertà e di non essere rinchiude in una scatola, ora la percezione di una vita “dai colori sbiaditi”, malinconica.

Undici capitoli, un epilogo. Desplechin, regista di sentimenti raccontati con discrezione ed eleganza, è abile nel riuscire a far emergere la complessità della vita attraverso sguardi, silenzi, verità e menzogne. Attraverso torrenziali dialoghi fa risaltare sia un paesaggio femminile magmatico e imprevedibile, sia le molteplici vite di un romanziere poiché le conversazioni tra Philip e le sue cinque donne non sono altro che storie che si posizionano al confine tra sogno, immaginazione e realtà.

Tromperie è – non va dimenticato, come si evince dal titolo, una storia che si fonda sull’inganno: un inganno che ha prima di tutto la forma di un adulterio ma che poi diventa sempre più dominante, fino ad essere quasi considerato come il protagonista principale del film, nella riflessione che il regista, ma prima di lui Roth, pone sul rapporto tra vita e letteratura e, quindi, di riflesso, tra vita e cinema. Di fronte al tradimento scoperto dalla moglie leggendo il taccuino delle conversazioni trascritte dal marito, lo scrittore si giustifica dicendo che “non sono che le bozze per un romanzo, il frutto della sua immaginazione artistica”. “Perché lui ama quella donna? Perché non esiste! Se tu non esistessi, ti amerei in quello stesso modo”. “Come potresti essere umiliata da qualcosa che non è reale? Tutto questo non sono io. Sono io che faccio da ventriloquo a me stesso”.

In questo continuo gioco di rimbalzo tra autore e personaggio si fa preponderante l’inganno verso il lettore e lo spettatore che non sanno più districarsi da cosa è finzione e cosa è realtà e anche, come si deduce alla fine del film, verso le persone descritte nel libro Inganno che lo scrittore pubblicherà tempo dopo, che si sentiranno deformate della propria identità, non più ritrovate sulla pagina.

Straordinari gli attori, ma in particolare spiccano Léa Seydoux che dà vita ad un’amante senza nome, sofisticata, colta, tormentata dall’idea di invecchiare, i cui sguardi esprimono solitudine, gioia, desiderio di sentirsi amata e Emmanuelle Devos, che in sole tre scene regala alcuni dei momenti più intensi di tutto il cinema di Desplechin.

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