Cure, di Kiyoshi Kurosawa (Giappone/1997)

di Girolamo Di Noto

Nel panorama del cinema giapponese degli anni ’90, una delle figure che si staglia e si distingue per la capacità di rinnovare l’horror è certamente Kiyoshi Kurosawa: nel 1997, quando realizza Cure, rivoluzionerà il genere, rendendolo metafisico, sconvolgente, non utilizzando mostri, fantasmi, ma un male intangibile, irrazionale, inquietante perché radicato nel vivere quotidiano.

Se nel cinema di Takashi Miike il male e la violenza hanno quasi sempre una ragione, in Cure non ci sono motivi, afferrabili o comprensibili, per l’accadere degli eventi. Il male esiste, contagia e gli uomini ci si muovono dentro senza conoscerne le cause. Il detective intento a braccare l’assassino seriale cerca soluzioni, scava, fluttua in un mondo dove quello che c’è da capire non può essere capito, quello che c’è da scoprire non può essere scoperto. Può soltanto constatare la propria inadeguatezza, la nostra inadeguatezza a comprendere, a cercare una verità che sembra arrivare a conclusioni vittoriose che però poi si attorcigliano sempre.

A Tokyo, il detective Kenichi Takabe (Yakusho) è alle prese con una strana serie di omicidi, le cui vittime sono sempre mutilate con una X, una serie di delitti portati a termine da persone diverse che non ricordano nulla delle loro azioni: il responsabile è un giovane disturbato, Maniya (Hagiwara), che ipnotizza le persone inducendole a delitti orribili, spesso ai danni dei loro cari; e Takabe, la cui moglie soffre di una malattia mentale simile a quella di Maniya, diventa più vulnerabile man mano che si avvicina a quest’ultimo.

Quello che sembra trasparire da Cure è che ogni possibile tentativo di conoscere la verità può portare alla follia: il detective cercherà in ogni modo di dare un senso a tutto ma ogni tentativo svanirà negli abissi dell’incomprensibilità delle azioni dell’uomo. Non c’è più alcun appiglio per un tentativo di organizzare mentalmente la realtà, non è possibile “tracciare un tracciato”, si tratta di una violenza inspiegabile come sottolineato dal personaggio di Sakuma (Ujiki), l’amico psicologo che aiuta Takabe nelle indagini: “Alla gente piace pensare che un crimine venga commesso per un motivo, ma spesso non è così, non si può capire un crimine, a volte non lo capisce neanche il criminale”.

Cure è un film che supera il genere dello psico-thriller, investigando sulla crisi d’identità dell’era post-moderna: ” Chi sei tu? ” è la domanda con cui Mamiya incalza le sue vittime che, perplesse, scandiscono il proprio nome o il ruolo sociale, ma non vanno oltre la superficie. “Chi sei tu?” è una domanda inquietante poiché nessuno sa davvero rispondere, perché, come scriveva Freud, “L’Io non è padrone in casa propria” e Kurosawa è abile nel riuscire a sprigionare inquietudini mettendo in risalto personaggi che non saranno mai liberi come credono di essere, ma porteranno con sé il loro subconscio, i loro desideri repressi, i loro condizionamenti, la loro fragilità che saranno pronti a deflagrare quando si presenterà l’occasione.

In Cure l’orrore sta tutto qui: entra lentamente sottopelle, non ha bisogno di terrorizzare attraverso spargimenti di sangue, non si serve di un serial killer con la museruola, ma di una persona sfuggente e indecifrabile, che non uccide in prima persona, ma annienta le barriere morali delle sue vittime, le condiziona, le manipola, sgretola la loro psiche. Kurosawa crea inoltre il terrore attingendo dal quotidiano – da pelle d’oca il rumore sordo di una lavatrice che gira a vuoto – e utilizzando quella che è stata definita “la poetica dell’imprevisto” che consiste nel costruire scene di suspense dove apparentemente non succede niente, ma poi improvvisamente la violenza irrompe come quando vediamo qualcuno buttarsi giù da un tetto o da una finestra, senza che nulla, nemmeno la musica, ci abbia preparato.

La violenza lascia di stucco per come avviene, rappresenta una crepa che spezza di colpo la realtà. In Boiling Point di Kitano il protagonista prova delle armi e, senza fare una piega, uccide chi gliele vende. Allo stesso modo la banalità del male si manifesta in Cure nella scena dell’omicidio di un poliziotto da parte di un collega che non avviene per una discussione ma ha il suo compimento alla stregua di un saluto e quello che rende angosciante è il trasporto emotivo dell’assassino che si inquadra in un comportamento di routine, come se tutto fosse normale.

Via via che il detective ( ottima l’interpretazione di Yakusho, già ammirato in Perfect days di Wenders), scende nel profondo delle tenebre, nei labirinti del subconscio dell’assassino, perderà la propria umanità, lo porterà a scavare nella propria vita, rivelandosi una figura caparbia e fragile allo stesso tempo, che verrà inghiottita, suo malgrado, dagli eventi. Kurosawa è straordinario nel mettere in luce questo male assoluto, che non si può etichettare, attraverso piani sequenza che risaltano la dimensione psicologica, le inquadrature fisse che sottolineano lo smarrimento degli individui, il silenzio che pervade la scena, creando un film rigoroso, senza sbavature, dalla tensione sempre più crescente, che affascina e destabilizza, da scoprire o rivedere, perché spinge a riflettere sulla natura umana, così complessa e contraddittoria.

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