
di Andrea Lilli –
Come parlare di cinema su Gaza in questi giorni, mentre Gaza City brucia, come si compiace di confermare il ministro israeliano della Difesa, senza più ritegno, e prosegue impunito il massacro dei palestinesi, avanza l’invasione, la distruzione delle loro proprietà e attività, mentre Trump specula sui cadaveri sorridendo ai fotografi con Netanyahu, accolto con tutti gli onori, così come ha fatto oscenamente con Putin, stracciando i rispettivi mandati di cattura emessi dalla Corte Penale Internazionale?
È umano vedere oggi una fiction su un crimine contro l’umanità mentre è in corso? è moralmente possibile? Un film ci rende più consapevoli e reattivi su tale orrore, o al contrario sovraccarica le cronache quotidiane producendo distanza, disinteresse, menefreghismo? La risposta forse sta in questo dialogo fra i due protagonisti di Tutto quello che resta di te:
Salim: – Sai dove vi porterò quando tutta questa follia sarà finita?
Hanan: – Dove? A Gaza? A Damasco? A Beirut?
Salim: – No. Al cinema.
Hanan: – Ci andavamo per nasconderci dai miei, ricordi?
Il cinema come rifugio protetto, occasione di riflessione, momento di verità intima e condivisa. Cinema di resistenza, contro gli aggressori e gli indifferenti. Per mantenere vivo ciò che resta della nostra umanità, per non abituarci alle tremende notizie quotidiane abbiamo bisogno di film come questo, di sapere chi sono i Salim e le Hanan, cosa subirono i loro nonni e subiscono i loro figli, come resistono alla disperazione.

“Non sottovalutate il potere della vostra umanità. È l’unica cosa che nessuno vi può portare via.” (un imam, rivolto a Salim e Hanan)
Ci serve il cinema, questi film, per scorgere nel buio più tetro un segnale di speranza, malgrado tutto, malgrado la realtà poi non tolleri qualunque barlume sullo schermo, come abbiamo visto dopo il successo del documentario israelo-palestinese No Other Land (Oscar 2024), un consulente (palestinese) del quale è stato ucciso a freddo da un colono (israeliano) durante l’ennesimo avanzamento di ruspa, tre mesi fa.
La regista, sceneggiatrice e attrice protagonista di Tutto quello che resta di te, Cherien Dabis, palestinese-giordana nata e cresciuta negli Stati Uniti, trae ispirazione dalle esperienze della sua famiglia costretta all’esilio dopo il trauma originale: la Nakba del 1948, ovvero la deportazione forzata di circa 750.000 arabi palestinesi da parte dei paramilitari sionisti, con l’aiuto dei coloni britannici, per la formazione dello Stato di Israele. Il racconto parte appunto dal 1948 a Jaffa, prosegue in un campo profughi di Nablus, in Cisgiordania nel 1978 e nel 1988, per tornare a Jaffa diventata Tel Aviv, nel 2022. Tre generazioni, 75 anni di occupazione e sfollamento. Dai profumati aranceti espropriati di forza al nonno benestante, al rancore coltivato dal nipote nel campo profughi, il film affronta – con delicatezza e dignità ammirevoli – questioni complesse: come (sia davvero difficile) non farsi avvelenare dal rancore; come proteggere i propri familiari senza compromettersi, umiliarsi, senza perdere stima e affetto degli stessi familiari; come conservare la propria umanità in rapporto a chi non la merita avendo fatto il possibile per sopprimerla; come la memoria storica non basti per ricordare i “mai più”, per impedire che un popolo perseguitato diventi a sua volta persecutore di altro popolo. Come la vita continui, comunque debba continuare.
Tutto quello che resta di te è un film di ampio respiro, commovente e illuminante. Va visto per capire un minimo cosa sia successo dal 1948, nella speranza che quel che resta di tre generazioni della famiglia Hammad acchiappi e salvi ciò che resta dell’umanità di noi spettatori.

Difficile vedere un film come questo oggi e restare indifferenti…
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