Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità, di Julian Schnabel (2018)

di Marco Grosso

Con “Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità” il regista-pittore Julian Schnabel immerge il suo sguardo nelle piaghe psichiche di Van Gogh e sotto le pieghe più oscure e controverse dell’ultimo tratto della sua vita (in particolare dalla rottura con Paul Gaugin sino al giorno della sua morte). Al centro del film sta il corpo erratico ed arrancante di Dafoe-Van Gogh, il suo ipercinetico peregrinare da una postazione all’altra come da una visuale all’altra, il suo corpo di acrilico essiccato, emaciato e affamato di luce, febbrile e vibratile come i suoi dipinti.

Il racconto – per lo più visivo e sonoro –  ripercorre alcuni dolorosi episodi di emarginazione e incomprensione che Van Gogh subì nella piccola comunità di Arles turbata dall’indole eremitica, dall’instabilità e dal furore creativo del pittore; richiama gli intensi scambi epistolari e i teneri sporadici incontri con il caro fratello Theo; tratta con empatia e pudore le sue crisi psicotiche e la parentesi del suo internamento; richiama alcuni passaggi della sua riflessione sulla vita e sull’arte, sulla natura e sulla religione (forse la parte più didascalica e meno riuscita del film); infine si approssima al giallo della sua morte prematura accreditando la tesi che questa non sia avvenuta per suicidio, come ipotizzato anche dal bellissimo film d’animazione Loving Vincent (l’esperimento di Kobiela e Welchman, distribuito l’anno precedente e letteralmente dipinto su fotogrammi-tele in stile Van Gogh).

Rispetto ad altri biopics dedicati al padre dell’Espressionismo il film di Julian Schnabel riserva maggiore spazio al racconto dell’amicizia sincera e conflittuale tra Vincent Van Gogh e Paul Gaugin durante il breve soggiorno ad Arles dell’allora 39enne pittore francese.  Theo Van Gogh, preoccupato per le condizioni mentali e di isolamento del fratello Vincent, aveva di fatti convinto e incentivato Gaugin, già amico ed estimatore del pittore olandese, a trascorrere un periodo ad Arles per aiutare Vincent a reagire al suo alienante isolamento.

I due pittori, pur opposti nel vissuto e nel temperamento, nonché divergenti nella concezione dello stile pittorico, del significato ultimo dell’arte e della missione dell’artista, appaiono tuttavia legati da una sincera stima reciproca e da alcune affinità elettive. Vincent persegue un ideale più ascetico e utopico del lavoro artistico, sogna di ricreare nella piccola e assolata Arles – dove aveva cercato riparo dalla vita cittadina di Parigi percepita come ostile e straniante – una comunità solidale di artisti lontani dai circuiti dell’arte “ufficiale” e dal clima di rivalità degli artisti affermati; dal canto suo Paul insegue, attraverso l’espressione del talento artistico, il confronto-scontro con i suoi colleghi insieme al riconoscimento e al successo personale dentro i contesti che contano. Fatalmente gli alterchi si susseguono e si fanno sempre più violenti finché Gaugin “scappa” da Arles lasciando l’amico in balia delle sue crisi psicotiche e dei suoi atti autolesionistici (arcinoto il taglio del lobo dell’orecchio). La rottura con Gaugin e il suo addio contribuiranno all’ulteriore aggravamento delle condizioni mentali di Van Gogh che di lì a poco dovrà accettare l’internamento, per circa un anno, nel manicomio di Saint-Paul de Mausole.

La rilettura biografica di Schnabel recepisce i contributi di studi, scoperte e interpretazioni recenti senza perdere il suo riferimento al noto saggio di Antonin Artaud del 1947 (“Van Gogh, il suicidato della società” ).

Il tentativo di Schnabel si smarca dal tradizionale filone dei biopics sulle vite degli artisti nella misura in cui non persegue l’intento di una rigorosa restituzione filologica e biografica della vita e dell’opera del pittore olandese, né tradisce sottese finalità celebrative e agiografiche.   Il Van Gogh di Schnabel è piuttosto il prodotto di una complessa ed ambigua fusione tra l’io del regista e quello del protagonista del suo film, ovvero tra gli sguardi di due pittori, per mezzo del medium cinematografico. 

Schnabel ci consegna il suo personalissimo Van Gogh lasciando che il suo genio visionario in qualche modo torni a vedere negli occhi ammirati del regista-pittore e grazie alla prova attoriale di un Willem Dafoe in stato di grazia, capace di trascendere anche il virtuosismo della re-citazione in un tentativo estremo di re-incarnazione del personaggio. Il Van Gogh di Schnabel e di Dafoe ci appare perdutamente consacrato alla propria totalizzante vocazione artistica, assediato dai demoni di dentro, destinato a scontare la sua breve e solitaria esistenza “sulla soglia dell’eternità” con tutto il carico della propria fragile e reietta umanità, col suo sguardo acceso di dolente incanto e misticamente accecato dallo splendore di una natura divina e salvifica, la stessa che di colpo deflagrava sulle sue tele.

Il film è un invito non facile a compiere un viaggio di scoperta (a tratti allucinato e claustrofobico, a tratti lucidissimo e illuminante) nella mente di un genio soggiogato dai suoi fantasmi, dalle sue ossessioni magnifiche e distruttive, dalle sue voci visibili, dalle sue interferenze angeliche e demoniche.

Dal punto di vista delle tecniche di ripresa gran parte del film si concentra sullo sguardo e sul passo di Van Gogh. Dafoe si carica della steady-cam che registra in soggettiva l’andatura sbilenca e nervosa del suo corpo, le accelerazioni a perdifiato nei campi di grano, gli scatti improvvisi delle sue pupille come i colpi decisi del suo pennello, alla perenne ricerca di una luce e di un prospetto migliori, di colori e di “arie” che presentiva e vedeva solo lui. Una camera che per Schnabel doveva dolorosamente ballare insieme al corpo e all’anima del pittore perché – come lui stesso spiegava sul set a Dafoe – “il nostro destino è ballerino: dunque una macchina da presa non ballerà mai abbastanza”.   

La fotografia e le immagini del film sono spesso alterate, bruciate e sovraesposte o saturate e ingiallite durante le sue visioni febbrili, oppure sono schermate dal velo delle sue lacrime e sfocate alla base dell’immagine. Tutto questo consente, allo spettatore che si abbandoni al ritmo visivo e sonoro del film, un’immedesimazione appassionata e dolorosamente empatica nell’anima di un uomo che aveva trasformato la sua sconfinata e disperata solitudine in un eremo assolato da guardare insieme a lui, il suo delirio in una esplorazione implacabile dell’invisibile, il suo disadattamento alla società del suo tempo in una testimonianza inattuale e profetica spinta “sulla soglia dell’eternità”, convinto com’era di non essere venuto al mondo per alcun “raccolto” ma solo allo scopo di “seminare” per uomini e donne ancora non nati.

Cosi guardava e creava, Vincent, sempre teso al Dio che gli parlava per immagini indecifrabili ai suoi contemporanei, nella lingua stessa di una Natura trasfigurata, eccessiva, straripante di Anima.

La sostanza di questo film sofisticato, ossimoricamente cupo e solare com’era Vincent, forse non è stata sufficientemente riconosciuta e apprezzata dal grande pubblico e da parte della critica, ma sta tutta nell’aver ripercorso l’irrepetibile parabola di uno sguardo che dall’abisso della disperazione e dello smarrimento era riuscito scorgere e celebrare una luce invincibile, “nascosta in piena vista” per lui e per tutti quelli a cui lui avrebbe aperto nuovi occhi.

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