Dopo il matrimonio, di Susanne Bier (2006)

di Marzia Procopio

Cosa può fare un uomo quando sa che sta per morire? È la sua scelta nel momento supremo che lo rivela per ciò che realmente è? Di quanta generosità e nobiltà è capace, anche quando sa che per lui non c’è più tempo?

Jørgen Lennart Hansson è un milionario danese che manda a chiamare Jacob, che gestisce un orfanotrofio in India, perché vuole finanziargli il progetto per un anno. Quando Jacob torna, a malincuore, in una patria che detesta, ciò che trova cambierà per sempre la sua vita.

La trama di Dopo il matrimonio, film del 2006 che nel 2019 ha meritato il remake di Bart Freundlich con Michelle Williams e Julianne Moore, non è nuova: vi si racconta l’estremo atto d’amore di un uomo malato verso la sua famiglia; una manipolazione, anche, ancorché a fin di bene. Paternità, famiglia, amore, responsabilità, sacrificio: questi sono i temi che il film tratta, con uno stile teso, fatto di primi e primissimi piani che assediano gli occhi dei protagonisti e i loro sentimenti, mirabilmente espressi da attori straordinari, tra tutti Mads Mikkelsen – il silenzioso, tormentato Jacob (visto in Le mele d’Adamo e anche come nemico di James Bond in Casino Royale) e lo svedese Rolf Lassgård, uno Jørgen padre amorevole, uomo d’affari potente e autorevole, marito affettuoso ma con un destino crudele che lo rende rabbioso.

Duro, intenso e commovente, mai per fortuna sentimentale, il film di Susanne Bier, regista di “Open Hearts” e “Non desiderare la donna d’altri”, poggia su una sceneggiatura per molti aspetti classica, che ruota attorno a un rito, il matrimonio della giovane Anna, e alla successiva agnizione – Jacob è il suo vero padre – per sviluppare un discorso sulle dinamiche familiari – affetti, potere, ricatti morali, fughe emotive – a partire da quella che si potrebbe definire “l’onda del destino” di una malattia.

La messa in scena è dinamica, il montaggio amplifica l’impatto emotivo del film; girato quasi tutto con la camera a mano, che segue da vicino personalità ed emozioni degli interpreti e diventa una sorta di specchio dell’anima (questo vogliono dire gli occhi costantemente ripresi dalla macchina da presa, in stile Dogma), il film è sorretto dalle intense interpretazioni non solo dei già citati Lassgård e Mikkelsen, ma anche della danese Sidse Babett Knudsen, nel ruolo di Helene, moglie di Jørgen.

La fine si avvicina, il dramma volge al suo atteso epilogo: ce lo dicono le foglie mangiate e l’animale morto lungo la strada. Nonostante la malattia e la morte, tutto va a posto: la lungimirante generosità di Jørgen viene premiata, il piccolo Pramod diventa grande e congeda serenamente Jacob nell’ultima scena del film. Il film rischia di essere un melodramma pesante e banale, ma non lo diventa mai, perché la regista governa i registri emotivi e non cede alla tentazione di strafare con i virtuosismi. Brano finale delicato e struggente dei sempre eccellenti Sigur Rós. Da vedere (su Amazon Prime Video e il 27 luglio alle 17.20 su SKYCINEMADRAMA)

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