Mr. Klein, di Joseph Losey (1976)

di Girolamo Di Noto

Capita spesso di trovarsi in presenza di un film intrigante, dall’atmosfera opprimente, tesa, incalzante, ma mai come nel film di Losey, Mr. Klein, ci troviamo di fronte a qualcosa di angosciante, paranoico. Mr. Klein è la storia di un cinico mercante d’arte (Alain Delon) nella Parigi occupata dai nazisti, che scopre di avere un sosia ebreo suo omonimo. Farà di tutto per incontrarlo ma questa ostinata ricerca verso l’altro da sé lo spingerà in una spirale infernale di dubbi e incomprensioni fino al triste e agghiacciante epilogo.

Scritto da Franco Solinas e Fernando Morandi, Mr. Klein è uno degli ultimi grandi film di Losey, il primo girato in Francia, una potente storia di scambio di identità che presenta numerosi rimandi kafkiani, una pessimistica riflessione sull’impossibilità di fuggire dal proprio destino, una parabola discendente di un uomo che perde pian piano le sue certezze, che si ritrova intrappolato in una giustizia assurda e arbitraria, la storia di un uomo e della sua autodistruzione.

Klein è un uomo scaltro, senza scrupoli, sfacciato, indifferente di fronte alla sofferenza degli altri: conduce una vita agiata facendo affari con numerosi collezionisti perseguitati dalle leggi razziali. È un borghese che ama farsi gli affari suoi, insensibile e disinteressato alle disgrazie altrui, che si mostra perfino – a suo dire – caritatevole: “Molto spesso preferirei non comprare”, dice a un venditore, anche se poi si convince a farlo a metà del valore del dipinto. Al momento dell’acquisto del Ritratto di gentiluomo del pittore olandese Van Ostade Klein si scusa, quasi è dispiaciuto, mostra una maschera compassionevole. In realtà è consapevole del suo cinismo, fa propria quella che i tedeschi chiamano Schadenfreude, ovvero il piacere per le disgrazie altrui. Nella sua vestaglia di raso si sente invulnerabile, superbo ma il capovolgimento della fortuna è in agguato e in questo film mostra un volto surreale, inaspettato, spiazzante.

Una rivista ebraica viene recapitata al suo indirizzo rivelandogli l’esistenza di un suo omonimo. Da qui scatta l’indagine, la caccia all’uomo: dapprima incredulo e incuriosito Klein comincerà ad essere preoccupato, inorridito che un ebreo di nascosto possa usare la sua identità. Come K. di Kafka, verrà inglobato in un sistema più grande di lui, verrà travolto dall’incapacità di dominare la propria vita, sarà oggetto dei suoi carnefici e da persecutore diventerà perseguitato.

Losey ha stile da vendere, cura in modo impeccabile ogni inquadratura, inquadra gli attori in una scenografia sempre oppressiva, dove gli oggetti come gli specchi, i quadri contano quanto le presenze umane, le rappresentano e ne sono rappresentati. C’è un arazzo in particolare ripreso all’inizio del film che suggerisce da subito la direzione in cui il film si muoverà: raffigura un avvoltoio trafitto nel cuore da una freccia.

Losey concede una conoscenza solo parziale al suo protagonista, semina dubbi, non lo fa avvicinare alla verità, però nei confronti dello spettatore quasi si diverte ad offrire oggetti indiziari, richiami simbolici da prendere certo con le pinze, ma rivelatori di significati. L’immagine dell’arazzo è alquanto chiara: raffigura il destino del protagonista, avvoltoio senza scrupoli e senza remore, pronto ad arricchirsi ma che subirà un rovescio della fortuna di lì a poco, una freccia nel cuore.

L’arte si fa specchio della sua vera natura, monito del suo destino. La vicenda di Klein si snoda nei corridoi di case lussuose, nei comandi di polizia, in appartamenti fatiscenti ma soprattutto in luoghi decorati da specchi che, in questo caso, non sono che degli dispostivi di visione deputati a riflettere la realtà, a duplicarla e soprattutto rappresentano l’incertezza di Klein su se stesso. Significativa, in tal senso, è la scena in cui dopo che prende la rivista ebraica Klein si volta vedendosi riflesso nello specchio dell’atrio. Si guarda smarrito, quasi sembra intuire l’odissea che gli capiterà. Con suo sgomento Robert Klein scopre che c’è un altro Robert Klein che gli assomiglia, che gli gioca uno scherzo beffardo. Di questo “lui” misterioso abbiamo tracce sparse: la topaia che ha preso in affitto, una donna ricca e sposata( Jeanne Moreau) che ha sedotto, un’altra misteriosa donna che ha diversi nomi.

Il doppio resta sempre fuori campo e quello che alla fine emerge è solo un’anima divisa, braccata, alla ricerca della verità. Chi è Mr. Klein? Il predatore che diventa vittima e che alla fine sembra cercare una catarsi condividendo il destino delle vittime di cui si era approfittato con i suoi affari? E se fosse un delirio di persecuzione, uno sdoppiamento della personalità?

Di certo Mr. Klein è un’opera che denuncia ogni totalitarismo come dimostra l’incipit del film, una scena di insopportabile violenza psicologica che ritrae una donna completamente svestita e un dottore che la esamina per capire se si tratta di un’ebrea oppure no. Una donna che viene misurata per valutarne la razza come se si trattasse di un animale. Una scena che fa emergere con tanta acutezza la disumanità dell’uomo.

Losey sarà sempre in bilico tra cupo realismo- lo spaventoso meccanismo dell’eliminazione di un popolo- e formalismo allegorico, non interessa a lui la ricostruzione storica, ma si concentra sul carattere irrisolto della vicenda, sugli aspetti psicologici e con stile elegante e freddo disincanto racconterà dietro l’angoscia di Klein quella dell’uomo di fronte al proprio destino. Un’angoscia a cui Delon – in stato di grazia – darà il giusto peso con un’interpretazione sobria e ambigua che saprà catturare in maniera efficace il senso di paranoia che era pervasivo dell’epoca.

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