di Antonio Sofia
Questa è una recensione complicata, come tutte le recensioni che si arrischiano a criticare un film senza riuscire ad amarlo. Si può scegliere di guardare altrove, parlare d’altro, ma a volte no, il film resta addosso, nella testa; mi chiedo cosa non ho saputo vedere o non ho capito, ne leggo il più possibile, mi metto in discussione. Il film di Wilma Labate – scritto dai fratelli D’Innocenzo e presentato a Venezia nella sezione Orizzonti – indubbiamente ha raccolto parecchi consensi, ma sono stati quegli stessi consensi a confermare le mie perplessità. Veniamo al dunque.

Il film racconta di una ragazza di sedici anni, Nadia, che subisce uno stupro; uno stupro, non “un mezzo-strupro, un rapporto non consenziente”, come nella infelice definizione di Luisa Morandini. Nadia dice chiaramente NO, chi non rispetta il NO è uno stupratore. La Labate ha indugiato nella ripresa della violenza, come enfatizzato nelle interviste:
“Lo spettatore deve trovare disagio e dolore, così tanto più forte sarà l’imbarazzo. (…) Sì, dura venti minuti che sono un’eternità, sembrano due ore, è così che si svolgono quelle cose, volevo raccontare quella scena non in modo simbolico ma in tempo reale, per far sentire l’angoscia di chi deve subire” (Corriere).
Nadia nasconde la violenza, ma non può affrontare da sola la gravidanza che ne consegue: con la mediazione della sorella, chiede aiuto ai suoi genitori. Dice di non sapere chi sia il padre e la proiezione immediata dei genitori è quella di organizzare il prima possibile l’aborto.

Un lungo primo piano sul suo silenzio, uno stacco nero, e ritroviamo Nadia a scuola con il pancione. Da qui in avanti la sceneggiatura mostra in sintesi l’attesa, la nascita e, in un breve epilogo, la crescita del figlio.
Dai primi minuti del film il tratteggio è quello dell’adolescente introversa, di famiglia piccolo-borghese, genitori poco loquaci, perfettamente in linea con gli stereotipi del cinema italiano. Siamo a Trieste, così descritta dalla regista: “misteriosa come l’identità femminile, finisce con la e e non con la o, è una città piena di storia, di vecchi conflitti, di cultura, affacciata su un mare malinconico, quasi grigio, sempre abbastanza calmo, è una finestra sui Balcani, infatti sono molto presenti le persone balcaniche con tutti i loro aspetti misteriosi, e sull’Oriente. È una città pulita, dove le cose apparentemente funzionano e volevo che questa storia fosse ambientata non in una periferia degradata e Trieste si è prestata molto bene a questo progetto”. Le riprese dedicate alla città sono lunghe, i primi piani sulla bravissima Alma Noce, sono lunghi e numerosi. La scelta è quella del levare, una scelta sempre meno rara nel nostrano cinema d’autore: dialoghi ridotti al minimo, silenzi dilatati, qualche battuta a effetto, richiami non casuali (la minaccia di “botte” è dello stupratore così come del padre arrabbiato, ed entrambi usano l’espressione “troia” per insultare la ragazza).
In questa opzione di scrittura si dissolve di fatto il cuore del film: lo schermo è nero quando Nadia comunica di non voler abortire e ottiene il coinvolgimento della famiglia nella sua scelta. Però, possiamo assistere agli effetti positivi di questa decisione. I genitori sembrano “vederla” di più, il dialogo progredisce fino a fare il salto di qualità nelle ultime battute: Nadia fa l’operaia, torna a casa stanca, i suoi genitori si occupano del figliolo, vuole ricompensare con un gelato i nonni premurosi; la ripresa si innalza lungo la parete esterna dell’abitazione e raggiunge il cielo. La ragazza ha volato, è andata oltre; la stampa ha evidenziato la sua consapevolezza, la sua forza, la speranza che Nadia ha rappresentato.

Adesso, con più chiarezza, devo esplicitare i miei problemi con questo film.
I fratelli D’Innocenzo hanno ritratto una ragazza introversa e affascinante; “bona” dicono lo stupratore e la sua cerchia di riferimenti adulti, al cospetto del corpo-oggetto da possedere. I pantaloni le stanno molto stretti, evidenziano le forme, lei si giustifica dicendo che erano vecchi e non se n’era accorta, ed è la battuta più bella del film, che rende l’idea di una crescita non percepibile con nettezza in chi vive l’abbandono dell’infanzia e l’approssimarsi dell’età adulta. L’assenza di un proseguimento nella cura del personaggio, abbandonato nei frangenti più complessi della narrazione, ci porta in una direzione assurda, ambigua, che ha adescato, con esito prevedibile, i commenti della prima critica: allo stupro Nadia non risponde come farebbero i genitori grigi, afasici, cupi e anaffettivi; allo stupro reagisce con la speranza, con il coraggio, con la consapevolezza. Ora: non voglio affondare oltre la misura il colpo, ma pure ipotizzando che l’intenzione non fosse quella, di fatto ciò che ne è emerso è precisamente il quadro di una adolescente silenziosa che sboccia per la gravidanza dovuta a uno stupro, gravidanza che l’aborto le avrebbe negato. La tecnica delle battute ad hoc in questo senso si ritorce contro gli sceneggiatori, che esagerano nel compiacimento, per esempio nella sequenza dell’allattamento: “Fa male?” chiede l’ostetrica, “No” risponde Nadia. Il rebound al resto del film è ovvio, ma i significati lo sono assai meno.
Una donna incinta per uno stupro non dovrebbe trovarsi mai dinanzi a questo racconto, a questo film, nato nella testa di due maschi e adottato da una regista a cui qualcosa, secondo me, è mancato.
Gli sceneggiatori, non potendo conoscere a fondo l’esperienza dello stupro e della maternità – anche il parto è rimosso dal visibile, hanno scelto la scorciatoia di essere la vittima attraverso l’immaginario più scontato, alla loro portata, e di scansare la responsabilità di indagare lo stupratore, che avrebbe imposto loro, e a qualsiasi maschio, una dolorosa introspezione. Assai ingenuo in tal senso è quanto si è proposto di fare la Labate nella sequenza dello stupro: non realizzare alcuna connessione narrativa con l’autore dell’abuso, e insistere in una – tra l’altro assai pudica, se pensiamo ad analoghe sequenze filmiche e televisive – inquadratura laterale, non ricrea in chi guarda il patimento della violenza e sarebbe folle sostenere il contrario. Lo stupro non può essere vissuto per interposta persona, ribadiamo l’ovvio. Ma se si rinuncia alla tessitura dei personaggi, allora non resta che un fatto, un evento diegetico, da cui procedere per confezionare un prodotto ambizioso ben oltre le proprie possibilità.

L’ellissi centrale del film è perfettamente coerente con questo approccio. I silenzi, l’incomunicabilità, sono un pretesto per evitare di mostrare ciò che non si saprebbe immaginare: in che modo, perché una sedicenne vittima di abuso sessuale definisce il suo futuro e come riesce a convivere con quanto patito. Senza mai accusare chi le ha fatto violenza. Sconcertante quanto poco significhi l’incontro casuale al parco con lo stupratore e la sua ragazza al cospetto della gravidanza, se non per l’ennesimo escamotage di scrittura, nel consueto rimbalzo di battute che i D’Innocenzo utilizzano anche successivamente per introdurre la sequenza del parto (“E a me chi mi accompagna?”, chiede Nadia alla madre, “Eh, noi. Chi ti deve accompagnare?”; ci andrà da sola in bus, senza avvisare i genitori).
Queste scelte superficiali nella scrittura non sono in alcun modo compensate dalla mano della Labate: catturata dalla possibilità di mostrare senza dire (“Volevo un film di silenzi, mai spiegato, mai giudicato”, ANSA), si ritrova paradossalmente a dire troppo senza mostrare abbastanza. Ha sostenuto che “con sfumature diverse” nove donne su dieci subiscono sopraffazioni analoghe a quella di Nadia. E qui mi si è chiarita la brutalità con cui la Morandini ha definito la violenza un “mezzo-stupro”. Quelle sfumature diverse sono un enorme problema di focalizzazione. Al di là degli obiettivi che la regista si è posta, il pubblico ha letto in questa vicenda il ritratto di una ragazza coraggiosa, forte, consapevole, a cui la scelta di non abortire ha regalato una dimensione famigliare più coesa e un futuro: così la “ribelle” vocazione critica dei D’Innocenzo si è condensata in una reazionaria parabola morale. L’opera è aperta, possiamo confermare con Eco, ma chi la allestisce non può esimersi dal predisporre gli spazi di interpretazione che offre al pubblico: che siano silenzi o profluvi verbali, ne è responsabile ed è il senso, in fondo, dell’essere autori.
Anche io ho visto alla Biennale il film della Labate sceneggiato dai fratelli D’Innocenzo che mi avevano colpito molto favorevolmente con la Terra dell’abbastanza, molto meno invece con Favolacce per concludere con America latina che ho trovato disastroso. E disastroso per lo stesso motivo che ricorre ne la ragazza ha volato. Non c’è nessuna vera narrazione, tutto è implicito e lo spettatore è disorientato e abbandonato. Il tema dello stupro è inevitabilmente molto spinoso e difficile da trattare e voglio cercare anche di capire perché la Morandini lo definisce un mezzo stupro. La protagonista è senza dubbio una ragazza abulica e introversa, sociopatica, chiusa in se stessa. Quando incontra il ragazzo mentre camminano uno vicino all’altro gli dice “Non mi interessa nessuno”. Ecco, se la ragazza segue a casa sua uno sconosciuto lo fa proprio in nome del suo disinteresse alla vita di questa abulia. Però non al punto, ovviamente, da accettare il rapporto sessuale. Qui si manifesta la sua totale innocenza. Commette un’ingenuità dettata dalla giovane età e dall’abulia, dalla incapacità di prendere le misure della propria vita. Ma tutto questo piano come si collega poi all’improvviso pancione che emerge fra i banchi di scuola? Come matura una decisione cos’ gravida di conseguenze? Nulla viene giustificato narrativamente nel film è tutto espresso in “dati di fatto” concludenti così come accade in “America latina” che vorrei magari provare a recensire successivamente a parte. Grazie della recensione
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