Oppenheimer. Meriti e omissioni di un film “implosivo”.

di Marco Grosso

Il novello Prometeo Oppenheimer

Stasera ho visto “Oppenheimer” al cinema, ero andato a vederlo con aspettative forse troppo alte e con l’impaziente desiderio di capire come fosse possibile, ancora una volta, che tra i contatti cinefili che stimo e che seguo i pareri su questo film fossero tanto clamorosamente e comicamente discordanti. Ciononostante ritengo di averlo approcciato con lo spirito giusto, senza alcun pregiudizio, animato da sincera curiosità. Ebbene sono uscito dal cinema frastornato dalla grandeur di un film “monstre” ma con un retrogusto di delusione e con la netta percezione di un’opera con più difetti che pregi, sebbene al momento non riuscissi a focalizzare la ragione della mia perplessità di fondo. Poi, rincasando e riflettendoci, ho individuato con chiarezza la ragione di quella mia impressione a caldo: si trova tanto nell’impianto narrativo quanto nel focus tematico e taglio stilistico scelto dal regista da metà film in poi.
Nella prima ora e mezza, fino al primo test atomico della storia nel deserto del Nuovo Messico e fino alla successiva sequenza dell’ovazione tributata ad Oppenheimer da tutti i partecipanti al “progetto Manhattan” per il successo del test , il film scorre benissimo e ti trascina con sé come calamitato da quella esplosione presagita fin dal principio e in cui va a culminare in modo spettacolare, il tutto sorretto da un montaggio perfettamente funzionale al thriller storico-psicologico che vuol essere, centrato sulla ricostruzione avvincente degli incontri e dei confronti sui nuovi studi di fisica quantistica tra i più geniali fisici del tempo (specie gli scambi tra Einstein e Oppenheimer) e sull’intreccio ben congegnato tra il racconto della sfera privata-sentimentale del protagonista e la lunga gestazione progettuale e operativa della titanica impresa scientifica del team da lui coordinato (patriotticamente al servizio dell’America in guerra contro il nemico nazista ma anche – in previsione e sullo sfondo – con quello sovietico).

Einstein e Oppenheimer

Poi il film, a mio giudizio, raggiunto il suo spannung o acme narrativo con la straordinaria sequenza del famoso Test Trinity e la ancor più deflagrante e istantanea presa di coscienza di Oppenheimer sul potenziale apocalittico della sua scoperta, il film comincia a scaricarsi, a depotenziarsi, a “implodere” su se stesso per circa un’ora, per riprendere il filo rosso del suo discorso solo negli ultimi venti minuti. Perché questo accade? Secondo me perché Nolan da quel momento apicale sceglie – per me in modo incomprensibile ma sicuramente molto americano – di imboccare la strada della lunga, prolissa, inutilmente puntigliosa e intricata ricostruzione del processo farsa che Oppenheimer, al culmine della sua fama, subirà successivamente per i suoi sospetti contatti con i russi e per le sue presunte complicità con una spia filorussa nel suo staff di lavoro. Nolan avrebbe potuto (e secondo me dovuto) da quel momento spostare tutto il focus della narrazione sul travaglio morale e psicologico di Oppenheimer, scandagliarne con i bisturi formidabili del cinema la coscienza e il subconscio, sviscerare la contraddizone e il paradosso tragico del grande fisico convinto di servire la scienza e la sua nazione e ritrovatosi suo malgrado nel ruolo prometeico e mefistofelico dell’apprendista stregone che sottrae a Dio la prerogativa di porre fine al mondo o del “padre della bomba atomica” che comprende di aver generato un mostro, invece si va a infilare e sfilacciare in un guazzabuglio prolisso e onestamente noiosetto di spy story da cold war e trial movie all’americana, colmo di tecnicismi giuridici, il tutto racchiuso dentro un’ennesima ricostruzione storica del clima maccartista che incanala il film in una direzione a mio parere secondaria.

Cillian Murphy

Questa scelta infatti, sempre a mio parere, preclude al regista la possibilità e l’occasione preziosa di costruire un potenziale capolavoro perché introduce nel bel mezzo del racconto un vistoso squilibrio narrativo, una cesura ritmica, uno slittamento del focus più interessante del film che si protrae almeno per un’ora! Ma soprattutto questa scelta di scrittura e di struttura porta Nolan all’errore a mio giudizio più imperdonabile : non sviluppare minimamente la tragedia degli effetti delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki, né sul piano storico – narrativo – cinematografico, né dal punto di vista psicologico morale esistenziale. Certo si accenna a quella catastrofe con qualche flash e qualche gelida cifra su morti ma è davvero poca cosa, la vera tragedia diventa sfondo, mero riferimento allusivo ed è relegata ai margini per fare spazio all’ego e alle vicessitudini di Oppenheimer, al racconto dei suoi trionfi e dei suoi dubbi, dei tentativi di screditarlo da parte dei suoi nemici e falsi amici o dei suoi (per la verità vaghi e intermittenti) scrupoli morali. L’impressione più sgradevole che ho provato a riguardo è che non si trattasse di una scelta motivata sul piano artistico e in funzione di un biopic tutto incentrato sul personaggio che racconta, quanto una soluzione accomodante ed edulcorante, che non risultasse troppo disturbante per la coscienza americana e non richiamasse in modo diretto e cruento la gigantesca responsabilità storica e morale a cui quel crimine epocale inchioda ancora oggi l’America (unico Paese ad aver sganciato le atomiche su esseri umani) .


Questo è davvero l’aspetto che mi ha irritato maggiormente e che ancora una volta fa del racconto cinematografico, nonostante le buone intenzioni del narratore, un altro “racconto dei vincitori” relativamente autoassolutorio per le note giustificazioni strategico-militari sempre addotte dagli americani sull’impiego dell’atomica (in parte fatte proprie anche dallo stesso Oppenheimer). Siamo anni luce dalla sensibilità e dall’onestà intellettuale di un Clint Eastwood che in “Lettere da Iwo Jima”, ribaltando ogni schema e stilema sui film di guerra americani, racconta la guerra dal punto di vista dei giapponesi, degli sconfitti e lo fa con sconcertante empatia col “nemico”, senza alcun intento caricaturale e mostrificante, senza alcuna faziosità ricostruttiva, mostrandone l’umanità e perfino l’eroismo.
Per tutte queste ragioni il film, malgrado le sue ottime premesse e i suoi indubbi pregi, resta per me un’occasione perduta e mancata.

La fama e la vergogna

Dei punti di forza del film non è difficile parlare perché appaiono più evidenti. Ho già parlato del serrato e sofisticato montaggio in chiave thriller-psicologico e in grado di supportare perfettamente la narrazione temporalmente non lineare tipica del cinema di Nolan e tenere insieme ben tre diversi piani narrativi (1942, 1954, 1959) con i continui andirivieni tra passato e presente.
Inoltre, come accennavo inizialmente, non si può non ricordare la magistrale sequenza del test Trinity nel deserto in cui Nolan (che non ha fatto ricorso alla computer grafica ma a efficacissimi effetti speciali analogici) ha sapientemente scelto di differire il suono assordante della detonazione sostituendolo inizialmente con il silenzio e il respiro di Oppenheimer e dei suoi attoniti colleghi. Questa sequenza lascia il posto ad un’altra scena strepitosa, quella nella sala in cui Oppenheimer viene fragorosamente accolto e acclamato dopo la riuscita del test e in cui tiene un breve discorso
durante il quale alle immagini e ai rumori del suo uditorio eccitato si sovrappongono nella sua mente i fantasmi degli orrori di Hiroshima e Nagasaki che di li a poco avrebbe segnato per sempre la storia dell’umanità.

Christopher Nolan e Cillian Murphy durante le riprese di Oppenheimer


Poi c’è ovviamente da ammirare la performance interpretativa di Cillian Murphy che nei panni del professor Oppenheimer regge l’intero film, abilissimo a rendere sia il pathos che la relativa freddezza del protagonista (ma è il livello recitativo di tutti gli attori ad essere mediamente alto) ; infine l’uso massiccio del sonoro e della musica a tratti troppo invasiva ma di indubbio impatto, così come la splendida fotografia che alterna il bianco e nero a colori che cambiano di tonalità a seconda delle fasi del racconto.

Robert Downey Jr. nel ruolo di L. Strauss


Concludo sottolineando il merito maggiore del film che è quello di aver riportato al cinema folle di ragazze e di ragazzi che non vedevo in sala così numerosi da almeno 3 anni e che per 3 ore hanno seguito il film senza fiatare e di certo riflettuto su fatti e temi enormi (tornati drammaticamente attuali).
Questa mi pare la notizia migliore.

2 pensieri riguardo “Oppenheimer. Meriti e omissioni di un film “implosivo”.

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  1. “Poi il film, a mio giudizio, raggiunto il suo spannung o acme narrativo con la straordinaria sequenza del famoso Test Trinity e la ancor più deflagrante e istantanea presa di coscienza di Oppenheimer sul potenziale apocalittico della sua scoperta, il film comincia a scaricarsi, a depotenziarsi, a “implodere” su se stesso per circa un’ora, per riprendere il filo rosso del suo discorso solo negli ultimi venti minuti. Perché questo accade? Secondo me perché Nolan da quel momento apicale sceglie – per me in modo incomprensibile ma sicuramente molto americano – di imboccare la strada della lunga, prolissa, inutilmente puntigliosa e intricata ricostruzione del processo farsa che Oppenheimer, al culmine della sua fama, subirà successivamente per i suoi sospetti contatti con i russi e per le sue presunte complicità con una spia filorussa nel suo staff di lavoro”

    amen. Concordo pienamente; bel film, ovviamente tecnicamente perfetto, ma secondo me la sceneggiatura non è il punto forte e si sente

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