di Girolamo Di Noto


Tra i grandi registi giapponesi, Ozu è indubbiamente quello che si è più attenuto a raccontare la stessa vicenda in modi sempre simili, con leggere sfumature, eppure i suoi film non sono mai stati pervasi da noia, ma da grazia, leggerezza, armonia. Come fa il pittore che dipinge la stessa rosa e ogni volta arricchisce la propria visione, così lui ha sempre rappresentato un piccolo universo familiare alle prese con una piccola o grande crisi: da Sono nato, ma a Figlio unico, da Tardo autunno fino ad arrivare a Viaggio a Tokyo, Ozu ha concentrato l’attenzione sulla famiglia, sul suo disfacimento, sui tentativi per ricomporla, sempre in bilico tra tradizione e modernità, vecchio e nuovo.

Tarda primavera, realizzato nel 1949, è anch’esso un film che inquadra uno dei temi dominanti della poetica del regista, ovvero il rapporto tra genitori e figli: al centro ci sono i sentimenti che intercorrono tra un padre vedovo, Shūkichi ( Chishu Ryu ) ed una figlia di ventisette anni, Noriko ( Setsuko Hara ).
Nonostante i continui tentativi del padre di convincere la figlia a sposarsi e a mettere su famiglia, Noriko non vuole lasciare solo il genitore. Shūkichi, per farla cambiare idea, decide quindi di fingere di aver trovato una nuova moglie, facendo credere alla figlia di avere nuovamente qualcuno che si occupi di lui per il resto dei suoi giorni. Noriko dapprima ne è sconvolta, ma la benevola trappola andrà a buon fine.

Tramite l’espediente di un matrimonio, quello presunto del padre, quello sempre accantonato o rimandato della figlia, Ozu narra con delicatezza, ironia e uno stile puro la vita nei suoi piccoli dettagli, nei suoi gesti quotidiani, soffermandosi non tanto negli eventi, ma su ciò che essi determinano in chi li vive o chi li ha vissuti. Attraverso la reticenza, il non detto, l’ambiguità Ozu racconta la storia: né il futuro sposo di Noriko né il matrimonio verranno mai mostrati perché per il regista contano i sentimenti che non saranno espressi con dialoghi verbosi, ma ridotti all’essenziale, all’interno di una piccola azione o dentro un misterioso gioco di sguardi. È sul volto di Setsuko Hara, l’attrice prediletta di Ozu, che si coglie lo sviluppo della vicenda: di lei non può non colpire il suo sorriso, così come non può restare indifferente il suo sguardo triste quando gli eventi prendono una piega diversa. Celebre, in tal senso, è la scena in cui padre e figlia si trovano a teatro per assistere ad uno spettacolo Noh: quando vede la presunta futura moglie del padre, Noriko ha dapprima il volto sereno, poi rabbuiato e prossimo alle lacrime. Attraverso un abile gioco di sguardi, senza una sola parola, Ozu mette in primo piano il turbamento privato della protagonista, i suoi tumulti d’animo.

Tarda primavera è una riflessione sulla necessità di armonizzare la felicità individuale e il sacrificio per l’altro: Shūkichi e Noriko non vogliono per sé, ma vogliono per l’altro. Le azioni dell’uomo come quelle della donna sono determinate dai bisogni e dalle esigenze della persona amata: Noriko non vuole sposarsi per non lasciare il padre solo, Shūkichi è disposto a rimanere solo affinché la figlia possa sposarsi. Da questo punto di vista il rapporto tra tradizione e modernità appare rovesciato: è la figlia, con la sua ottusa ostinazione a dover accudire al genitore rinunciando alla propria felicità, a rappresentare la tradizione, mentre la modernità del padre è rappresentata dall’apertura mentale che lo induce a rinunciare alla figlia purché sia felice. Certo, lui prova a convincere la figlia a sposarsi attraverso un matrimonio combinato, lei appare moderna nel suo amore per i film americani, nel suo resistere ai consigli degli anziani, ma nel complesso sembra più lei ancorata al rispetto delle tradizioni, al rispetto per la vecchiaia del genitore diversamente da come poi si racconterà quattro anni più tardi in Viaggio a Tokyo, in cui due genitori anziani vanno in città a trovare i figli, che hanno però ormai altro a cui pensare.

In Tarda primavera il rapporto tra tradizione e modernità è complementare a quello tra Oriente e Occidente: il cambiamento che avverrà nei rapporti familiari andrà di pari passo con quello che subirà il Giappone subito dopo la seconda guerra mondiale: il Paese si occidentalizza e se da un lato tendono ancora a resistere le visite ai templi di Kyoto e Tokyo, gli spettacoli Noh e le cerimonie del tè, dall’altro cominciano a comparire insegne della Coca-Cola, bar alla moda di nome Balboa, attori americani come Gary Cooper come punto di riferimento.
Ma è nella quotidianità che Ozu dà il meglio di sé: il suo cinema parla di persone vicine a noi, lontane dai personaggi eroici di Kurosawa o cadute in disgrazia come quelle di Mizoguchi, la sua arte restituisce l’essenza della vita che si identifica in semplici immagini come quelle dei treni che passano, dei panni stesi o gesti come quello di sbucciare una mela o infilarsi una scarpa.

È la vita quotidiana, il passaggio lento del tempo che muta le persone intorno a noi, le risposte reticenti, i silenzi, la vecchiaia solitaria che prelude alla morte. Ozu è il regista che ha saputo elevare il cinema alla sua massima bellezza, ha raccontato la danza della vita con una struggente profondità e una sobrietà d’animo invidiabile, mettendo in atto, come ha scritto Goffredo Fofi, ” una musica da camera tra le più sottili, mai stridente e romantica, mai decorativa e a effetto”.
Grazie al suo stile ellittico, poco incline a spiegare tutto, Ozu ha fatto sì che l’umanità trasparisse da un solo semplice sguardo, ha mostrato il dolore, la malinconia, l’assenza non evocandole a voce ma attraverso quelle che sono state definite ” immagini-sentimento “, ovvero inquadrature che prive di elementi umani, interrompono lo svolgimento di una situazione, con il fine di prolungare il sentimento di un personaggio. Al di là dei già citati treni che scorrono, paesaggi naturali, alberi, corridoi vuoti, Ozu si sofferma anche su oggetti quali specchi e vasi.

In tal senso, è importante sottolineare la scena che riprende la vestizione di Noriko prima della cerimonia nuziale. Due sole inquadrature chiudono la scena: nella prima Noriko è inquadrata mentre si riflette nello specchio, nella seconda è ripreso solo lo specchio vuoto che sta meglio a significare la definitiva separazione di padre e figlia.
Indimenticabile è anche la sequenza celebre del vaso nella scena del ryokan di Kyoto, dove Noriko e Shūkichi, stesi in camera, si apprestano a prendere sonno. Al viso sorridente di Noriko segue l’inquadratura di un vaso; quando la macchina da presa ritorna su di lei, la sua espressione è cambiata, il viso è affranto, proprio di chi si rende conto che la definitiva separazione dei due è ormai vicina. Il vaso viene sottratto alla sua funzione strumentale, ma viene investito di un senso, l’oggetto in Ozu diventa cosa.
Schrader, nel suo saggio dedicato a Ozu, Bresson e Dreyer, Il trascendente nel cinema, ha scritto che questo vaso ” è la rappresentazione in una forma purificata dei sentimenti di Noriko “.
Il cinema di Ozu diventa capace di liberarsi dalle apparenze e mira al raggiungimento dell’intangibile ed è qui che sta la sua grandezza.

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