Ma papà ti manda sola?, di Peter Bogdanovich (Usa/1972)

di Girolamo Di Noto

La funzione di divertire, nel cinema, è sempre stata quella, per dirla col Calvino delle Lezioni americane, di “sottrarre peso”. Vedere un film divertente allevia e rincuora, distrae, stordisce il sentimento delle cose, allenta la percezione della realtà. Ma papà ti manda sola? di Bogdanovich, rifacendosi alle commedie screwball anni Trenta e in particolare a Susanna di Hawks, è un’opera riuscita perché sa essere leggera, non ha paura di apparire poco credibile ed è piena di trovate che non danno tregua allo spettatore, catapultandolo in un vortice di risate e situazioni imprevedibili e assurde.

Il compassato musicologo Howard Bannister (Ryan O’Neal) si reca ad un concorso di lavoro a San Francisco con la pedante fidanzata (Madeline Kahn), ma si imbatte in una ragazza svitata, Judy (Barbra Streisand), che in pochi giorni metterà a soqquadro la sua vita.

Commedia spensierata, perfetta nei tempi comici e nella costruzione degli equivoci, Ma papà ti manda sola? rispecchia pienamente le caratteristiche del genere: ci sono porte che si aprono e si chiudono, persone che scivolano sotto i letti e che sgusciano fuori dalle finestre, ci sono scambi di valigie, ladri improbabili, arresti di massa.

Racchiudendo tutte le peculiarità della screwball comedy – dialoghi ammiccanti, gag visive, ritmo vertiginoso – il film di Bogdanovich è prima di tutto un atto d’amore, un amore sincero per un cinema – quello di Keaton, dei cartoon delle Lonely Tunes, a cui rimanda il titolo originale, What’s Up, Doc?, quello delle comiche di Mack Sennet – che non esiste più.

Dopo aver richiamato l’anno prima nel suo film L’ultimo spettacolo l’attenzione nei confronti de Il fiume rosso di Hawks, ultima pellicola ad essere proiettata prima della chiusura dell’unico cinema di Anarene, nel Texas, il regista omaggia ancora una volta il maestro americano girando una sorta di remake di Susanna, con la differenza che ci sono quattro valigie a scacchi al posto dei due leopardi maculati, San Francisco invece di New York e la coppia O’Neal/Streisand al posto di Grant/Hepburn.

Lungi dal fare confronti tra i due film, va però sottolineato il punto che li unisce: come nel film del 1938, la vita del paleontologo David Huxley è sconvolta dall’incontro casuale con un’ereditiera, Susan, che gli manda a monte il matrimonio e lo caccia nelle situazioni più imbarazzanti, così nel film di Bogdanovich la vita del goffo musicologo tutta organizzata e preordinata sarà travolta dalla vitalità di una ragazza esuberante, ben decisa a strapparlo dalle braccia dell’asfissiante fidanzata.

Se l’interpretazione del compianto O’Neal è resa con efficacia e grande versatilità, quella della Streisand è effervescente e sfrenata: il personaggio di Judy è un terremoto che sconquassa l’intero film, possiede la fisicità distruttrice di Ollio, spara battute come Groucho, è portatrice di caos e disordine, è forte e indipendente, è una simpatica combina guai, ma è credibilissima come tuttologa, è esperta nel risolvere i problemi che lei stessa crea.

Il film oltre ad essere incentrato sullo scambio, sul gioco delle valigie confuse, sostituite, perse che innesca, a seconda di ciò che contengono, una serie di inseguimenti mozzafiato per le vie di San Francisco tra spie, ladri, donne ricche impellicciate e altri strambi personaggi, è anche la riflessione su due stili di vita in netto contrasto tra loro: da un lato la quiete goffa di lui, sempre imbambolato e con la testa tra le nuvole, dall’altro la trasgressione e la genuina follia di lei che omaggia Bugs Bunny con quella insistente domanda, “What’s Up, Doc?” che rivolge a Howard ogniqualvolta si imbatte in lui.

Judy non si ferma davanti a nulla pur di aggiudicarsi il suo innamorato: scattante, aggressiva, agile, spericolata, non si stanca di trascinarlo in folli avventure, né di dedicargli You are the top di Cole Porter.

Ma papà ti manda sola? è anche rovesciamento dei ruoli, è sospensione dell’incredulità, è opera briosa e divertente che ti fa credere – almeno per un attimo lasciamoci travolgere dalla magia del cinema – che possa nascere un momento di seduzione da un pianoforte che si trova assurdamente sul terrazzo di un hotel, è il banchetto che si trasforma in una scazzottata generale, è rottura di equilibri, è disordine, è il giudice Maxwell (Liam Dunn) che si smarrisce cercando di capire qualcosa. È opera raffinata perché sa opporre alla comicità fisica anche l’arguzia della parola e sa essere ironica al punto giusto non mancando di lanciare frecciatine persino a Love Story, di cui O’Neal era stato protagonista, quando ne viene citata la più celebre battuta (Judy: “Amare significa non dover mai dire: mi dispiace” ; Howard: “È la cosa più cretina che abbia mai sentito!”).

Un film ancora oggi irresistibile, che invita – come tutte le sane commedie – ogni tanto a distrarsi, a staccare la spina e a farsi ” leggiero, leggiero “come Lello sulla canna della bicicletta in Ricomincio da tre di Troisi.

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