Ricomincio da tre, di Massimo Troisi (1981)

di Girolamo Di Noto

Ricordare Massimo Troisi, in occasione del 70° anniversario della sua nascita, significa non solo rievocare una comicità fatta di battute fulminanti, parole trascinate e balbettate, ricca di silenzi e caotica gestualità, ma anche far rivivere quelle sfumature dolceamare di cui è intrisa la vita, così presenti nel suo cinema, venato dalla malinconia dello spirito napoletano.

La sua principale forza consisteva nel fatto che era un comico che faceva ridere e commuovere allo stesso tempo, qualcosa di molto raro di cui erano capaci Chaplin e Keaton.

Ricomincio da tre, splendida opera prima di Troisi, campione di incassi in anni in cui il cinema italiano sonnecchiava, rivelò da subito le qualità dell’attore, degno esponente della tradizione teatrale partenopea, ma anche capace di spazzare via e capovolgere tutti gli stereotipi della napoletanità, a partire dal concetto di emigrazione.

Gaetano (Massimo Troisi) decide di lasciare la famiglia, tradizionale e rassegnata, per “ricominciare da tre” perché un paio di cose buone le ha fatte e non intende rinunciarvi. Nel suo percorso che lo porterà a Firenze cercherà di distruggere il luogo comune che vuole il napoletano solo emigrante. Tutte le volte si affanna a togliersi l’etichetta, perché non si ammette che un napoletano se ne possa andare in giro per il mondo a fare il turista o, come nel caso di Gaetano, per fare esperienza: “Je voglie viaggià, voglie cunoscere”. “Cca pare che nu napulitane nun po’ viaggià, può solamente emigrà”.



Gaetano non è furbo, non é ripreso a mangiare la pizza o a suonare il mandolino, porta, al contrario, nei suoi gesti impacciati, nelle parole ripetute per coprire i silenzi procurati dall’imbarazzo, una timidezza profonda, un’insicurezza che esprime l’incapacità di accettarsi a cui può porre rimedio solo con l’ironia. È molto legato a Napoli, ma nello stesso tempo cerca anche di prendere le distanze dall’eccessiva esuberanza, dall’enfasi dei gesti e dei toni dei personaggi familiari con cui ha a che fare.



Ricomincio da tre si apre di sera, in un cortile: Raffaele (Lello Arena) chiama urlando ripetutamente e in modo sguaiato Gaetano: “Gaetà, Gaetà, Gaetano, Gaetà!”. L’urlo dell’amico è un marchio di riconoscimento della napoletanità chiassosa e invadente, cui Gaetano si distanzia rimproverandolo, utilizzando però nello stesso tempo il ricorso alla fantasia, alla battuta surreale: “Stevo guardando ‘o telegiornale, a ‘nu certo punto pure ‘o presentatore là, steve liggenno, s’è fermato, ha ditto: No, scusate, andate a vedere ch’è ‘stu curnuto che chiama ‘e chesta maniera, che ccà nun se po’ faticà!”.

Lo stesso tipo di imbarazzo è ancora meglio elaborato nella sequenza del bar, in cui la zia (Marina Pagano) del protagonista si giustifica per l’uomo che Gaetano ha trovato in casa. La zia dà vita ad una classica sceneggiata, parla ad alta voce e anche in questo caso Gaetano, in evidente disagio, sente tutti gli sguardi, i giudizi della gente e tenta una sorte di salvezza, onde evitare ambiguità di fondo, chiamandola ripetutamente “zia”.

Un altro elemento che viene messo in discussione è la religione, che Troisi ritiene un potere difficile con cui convivere quando si presenta come una forza che opprime, vieta, impaurisce, illude, ma è anche un modo, alla sua maniera, che potrebbe risolvere definitivamente tutti i suoi problemi. Nel film torna ossessivo il tema del miracolo: suo padre (Lino Troisi) sta diventando pazzo perché è convinto che un miracolo gli restituirà la mano. Chiede continuamente alla Madonna di fargliela ricrescere, magari “di notte, così non mi impressiono” e Gaetano non può che osservare con pietà questa sua ostinazione quotidiana smontando la possibilità che possa avverarsi un evento del genere per la mancanza della materia prima: “Tutt’è miracoli che sacc’io sono sempre di gente ca nun ce vedeva e poi c’ha visto, però l’uochie già ‘e teneva. Nun camminava e poi ha camminato ma ‘e cosce è teneva. Hai mai visto è quaccuno che nun teneva ‘na cosa e lle è crisciuta?”



Va però sottolineato che, nonostante guardi con scetticismo il padre, Gaetano tenta a sua volta di spostare gli oggetti con il pensiero poiché “si je riesco a movere chillu coso, aggio risolto tutti i problemi miei”. Il personaggio di Gaetano ha dato un valore alla fragilità che non significa affatto essere inferiori, ma persone con dentro un mondo che fa più fatica a venir fuori. Le insicurezze del protagonista sono rese ancora più visibili dal contrasto con quelle patologiche del malato di mente (Marco Messeri) e di Robertino (Renato Scarpa), l’uomo- bambino visitato durante un giro apostolico con Frankie. Fragilità con diverse sfaccettature: se il malato di mente sente il desiderio di diventare un’altra persona, Robertino è invece chiuso in una casa-prigione, schiacciato da una madre autoritaria, impossibilitato a fare esperienze perché fuori ci sono “i demoni”.



È una delle scene cult del film. Dopo aver ascoltato Robertino subire una sorta di interrogatorio da parte della madre, Gaetano, rimasto solo con il ragazzo, dopo aver tentato di spiegare goffamente i limiti dell’amore, sbotta e dice: “Robė, Robė, siente a me, cca nun ce sta nisciuno limite…Robė…tu devi uscire, ti devi salvare, Robė…t’hanno chiuso dint’ ‘a stù museo, tu devi uscire, và mmiezo ‘a strada, tocc ‘e femmene, và a arrubbà, fa chello che vuo’ tu!”
“Mammina dice che io ho i complessi nella testa”.
” Quali complessi! Tu tiene l’orchestra intera in capa, Robė tu ti devi salvare.”

In Robertino Gaetano ha visto il suo stesso senso di inadeguatezza, ha visto dove può portare la sua incertezza e quel continuo invito a salvarsi sembra rivolto anche a sé stesso. Gaetano, in effetti, partendo da Napoli, scrollandosi da una realtà immobile, cerca in ogni modo una salvezza dalle sue insicurezze, cerca di dare un calcio alla sua goffaggine ma non sarà semplice perché caratterialmente resta un insicuro, un imbranato.

Quest’animo introverso emerge soprattutto quando a Firenze incontra Marta (Fiorenza Marchegiani), una ragazza che lavora in un centro di igiene mentale e che aspira a fare la scrittrice. Sin dal primo approccio si rivelerà timido, per incontrarla “per caso”, non esiterà a fare di corsa tutto il giro di un isolato, si mangia le parole, ha gesti impacciati. Gaetano sembra oscillare tra sentimenti opposti: da un lato ama Marta, dall’altro ha paura di esporsi, di non essere all’altezza.

Con Marta il personaggio di Gaetano mostra tutta l’incapacità di mettersi a nudo, sarà in bilico tra l’apparire e l’essere soprattutto dopo che Marta gli confesserá il tradimento: davanti a lei mostrerà indifferenza, davanti alla sua immagine riflessa nello specchio invece reclamerà tutto il suo disappunto. Una sofferenza che ancora una volta si allontana ricorrendo alla battuta, all’ironia. Tornando dal bagno, dove si era rifugiato per sfogarsi con la propria immagine, dopo che Marta gli aveva rivelato quella triste verità, Gaetano sposta l’attenzione, con il solito scarto surreale, su un altro fronte: “Scusa Marta, come si chiama chille ch’ha ‘nventato ‘a penniccilina?”
” Fleming “
” Mannaggia ‘a miseria! Stevo int’o bagno e pensavo proprio… cioè, e come si chiamava…”



Ancora una volta Troisi pone un rimedio alle insicurezze e in questo caso l’indifferenza è vista come sotterfugio per non cedere al dolore.

Il sapore della sua comicità sta nelle battute, nei paradossi che servono per aggirare l’imbarazzo, il disagio. La sua è quindi una comicità che diviene una sorta di corazza, di scorza, a protezione della propria sensibilità. Spesso a Gaetano mancano le parole giuste, manca il coraggio di dire, resta a volte impigliato, trattenuto da una zavorra e di fronte a questo senso di inadeguatezza oppone la sua correzione ironica, la soluzione magica, il ricorso alla fantasia che lo fa volare dal reale al fantastico, fino a toccare le vette dell’onirico.



La sua mimica, la sua gestualità, la capacità di rendere vivo e universale il dialetto lo hanno reso indimenticabile. Troisi è stato un comico che non si è fermato alla superficie delle cose, facendosi portatore di una napoletanità allegra e malinconica, mai volgare. Un talento che è esploso e che si è consumato in breve tempo a causa di un destino avverso e ingiusto.



“A sorte e ‘a morte parene duje parole quasi uguale e tutt’e duje venen all’intrasatta”.
Versi di una poesia di Troisi quanto mai veritiera e profetica perché sia il successo sia la sua scomparsa vennero “all’intrasatta”, all’improvviso. Tuttavia la sua arte resterà per sempre, un’impronta indelebile nel cinema e nella cultura italiana che il tempo di certo non attenuerà.

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