di Girolamo Di Noto

Roland Barthes ne La camera chiara, riferendosi al coinvolgimento emotivo che può offrire un’immagine, in particolare una fotografia, scriveva: “Io sono talvolta attratto da un particolare. Questo particolare è il punctum, ciò che mi punge, la ferita che suscita in me”. Allo stesso modo anche il cinema può agire coinvolgendo lo spettatore in un turbinio di emozioni, entrando a gamba tesa sulla sua sensibilità, scoprendo un particolare prezioso, utile per distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio, ma spesso sopravvalutato.

Alice non abita più qui, uno dei primi film di Scorsese, ha con sé questo fascino di soffermarsi sui dettagli per sondare animi e psicologie dei personaggi che lo popolano. Scritto da Robert Getchell, il film è uno dei più bei ritratti di donna del cinema americano degli anni Settanta: narra la storia di Alice (Ellen Burstyn), una giovane donna rimasta vedova che abbandona il New Mexico con il figlio undicenne Tommy ( Lutter), nella speranza di riprendere una carriera di cantante, interrotta dopo il matrimonio. Si imbatterà in una serie di personaggi negativi finché non incontrerà David (Kris Kristofferson): l’incontro con l’allevatore divorziato potrà portare un po’ di tranquillità nella sua vita?

Scorsese, sin dalle sue prime opere, affronta da subito la realtà infernale della solitudine e in questo film mette in risalto il desiderio di emancipazione femminile, la ricerca da parte della donna di inseguire i propri sogni, di vivere una vita che possa avere più senso per lei, ma nello stesso tempo richiama l’attenzione sulle difficoltà che incontra Alice ad affermarsi, soprattutto se inserita in una società fortemente maschilista, che vede nel matrimonio una gabbia in cui chiudere e soffocare le aspirazioni.

La protagonista deve fare i conti da subito con l’infrangersi dei sogni, con la perdita delle illusioni e Scorsese è abile sin dal prologo a mostrarci questo duro contrasto tra il mondo dorato dell’infanzia e la spietata realtà: “Ho girato il flashback come fosse un film di Hollywood fatto in un teatro di posa”. La sequenza iniziale, dichiarato omaggio del regista al cinema classico, in particolare al Mago di Oz con Judy Garland e Via col vento, ci mostra Alice bambina mentre canta, ripresa in uno scenario agreste. Ma la vita si sa prende sempre altre direzioni: con un’ellissi temporale di 27 anni, nella seconda sequenza ritroviamo Alice nel 1974. L’adulta che è diventata nutre ancora la speranza di diventare cantante ma deve anche scontrarsi con un matrimonio che non la rende felice e appagata.

Alice è una donna sola con un marito scorbutico che sa darle solo ordini, che le addossa la colpa di aver cresciuto un figlio viziato, che l’avvolge in un manto di tristezza e incomprensione, soprattutto nella scena del pranzo in famiglia, in cui, quando tenta di intavolare una discussione, non avendo risposte alle osservazioni che adduce, arriva ad imitare la voce del marito per continuare il dialogo. Questo è uno dei particolari, il già citato punctum di Barthes, che rivela la maestria di Scorsese nel descrivere la solitudine di una donna.

Il regista utilizza i dialoghi, i silenzi, gli sguardi smarriti dei protagonisti che testimoniano l’essere soli al mondo, ma anche si serve dei movimenti della macchina da presa e dell’utilizzo della musica. Due sequenze, in particolare, sono degne di essere citate: quando Alice arriva a Tucson, dove trova lavoro come cameriera in una tavola calda, stringe amicizia con la collega di lavoro Flo e in un momento di riunione solidale si vedono le due donne parlare e riflettere di maschi ideali che esistono solo negli sceneggiati, mentre la macchina da presa si eleva inquadrando dall’alto il luogo angusto in cui lavorano, così come nella sequenza in cui Alice incontra Ben (Harvey Keitel), la dicotomia tra sogno e realtà appare ancora più evidente: come sottofondo a quell’incontro romantico si sente I Will Always Love You di Dolly Parton, ma quel “per sempre” risulterà fasullo e stonato poiché l’uomo così apparentemente dolce, delicato e gentile si rivelerà aggressivo e violento costringendo all’ennesima fuga Alice e il figlio.

Alice non abita più qui può quindi anche essere considerata una commedia on the road, in cui il viaggio assurge a metafora di un percorso di affrancamento, diventa l’occasione di una scoperta maggiore di sé. Alice comincia la sua vita come una moglie che si occupa solo del marito e del figlio per poi, a causa o grazie alla tragica fatalità che le piomba addosso, arrivare a scoprire il proprio io, scoprire che esiste altro oltre a pensare cosa fare per cena. Porta sé al centro della propria vita: “Non è la vita di un uomo che voglio risolvere, è la mia vita”, e da questo punto di vista il film diventa la storia di un risveglio individuale.

Alice è sempre protesa in avanti, costretta a recidere i legami con il passato: è dura per lei reinventare una nuova vita, ripartire ogni volta da zero. Spinta da esigenze lavorative o costretta a fuggire da uomini violenti o poco raccomandabili, Alice viaggia, è alla ricerca di un luogo che possa farla sentire a casa, di un uomo che possa amarla, accoglierla con le sue braccia, con la sua voce.

“Il vero luogo natìo”, scriveva Marguerite Yourcenar nelle Memorie di Adriano,”è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi”. Alice cerca un proprio posto nel mondo, combatte contro la meschinità della vita, è fragile e combattiva allo stesso tempo, è una donna che vede delusi i suoi slanci umani, ma nello stesso momento non abbandona la propria fierezza.

All’epoca la critica femminista attaccò l’immagine di una donna che non sa scegliere tra i propri sogni e il bisogno di appoggiarsi a un uomo, ma il suo atteggiamento, rivisto oggi, si rivela realistico e credibile. Alice, fin dal titolo, richiama le avventure fiabesche di Alice nel paese delle meraviglie, ma questa Alice moderna non si è persa in un mondo fantastico, bensì in un mondo poco avvezzo a concedere sogni. Fragile e volenterosa, si muoverà a tentoni, spesso imboccando direzioni sbagliate, ma decisa comunque a lasciarsi alle spalle l’esistenza anonima e soffocata vissuta anni prima. E scoprirà, grazie anche all’amore sincero che troverà in David, come alla fine risulti importante venirsi incontro piuttosto che continuare a fuggire.

David, cowboy di provincia, scottato dalla vita ma pronto a ricominciare da capo, impersonato da quell’anima nobile e tormentata che è stata Kris Kristofferson, recentemente scomparso, proverà a darle sostegno, la inviterà a non arrendersi: “La prima cosa che devi fare è stabilire cos’è che vuoi. E una volta stabilito ti ci butti dentro a piedi pari e il resto vada pure a farsi fottere”. La inviterà a seguire l’istinto più profondo, a cercare quella libertà di cui lo stesso Kristofferson si servirà quando scriverà la canzone struggente per la Joplin Me and Bobby McGee, quella libertà che “è solo un altro modo di dire che non hai niente da perdere”, le verrà incontro, incoraggiandola a vivere la vita: “Canta con passione. Lavora con allegria, ama con il cuore. Perché è tutto ciò che conta alla fine “.

Un film da riscoprire, intenso, che riesce ad essere profondo senza per forza sfociare nella lacrima facile, che trova la sua forza nella straordinaria interpretazione degli attori: oltre ad Ellen Burstyn, già sulla cresta dell’onda per il successo dell’Esorcista, che con questo ruolo vincerà l’Oscar, e al grande Kristofferson a cui basta intonare I’m So Lonesome I Could Cry per lasciare il segno, degni di considerazione sono il bambino di Alice, Lutter, il solito Keitel e anche una giovanissima Jodie Foster, qui adolescente ubriacona, che presto ammireremo nel capolavoro successivo di Scorsese, Taxi driver.

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