di Roberta Lamonica

Zielona granica (Green Border), è un film del 2023 della cineasta settantaquattrenne Agnieszka Holland.
Sopravvissuta all’Olocausto, da sempre esponente del cosiddetto ‘cinema dell’inquietudine morale’ e dedita al racconto delle ingiustizie, la regista polacca in questo ultimo film dimostra di non aver perso la vocazione a un cinema di impegno politico e civile, che da qualche tempo sembrava aver perso tra le sabbie mobili del mainstream.
Il film si apre con una ripresa dall’alto sulle fitte foreste di conifere che separano – illusorio confine – la Polonia dalla Bielorussia.
Quelle stesse foreste diventano palude mortifera e cimitero a cielo aperto per i migranti provenienti prevalentemente dal Medio Oriente (ma non solo), usati strumentalmente da Lukashenko per sovraccaricare il confine ad occidente e ricacciati indietro in modo brutale da parte della polizia di frontiera polacca del governo Duda.

Il film ha una struttura quadripartita: una famiglia siriana e un’insegnante afgana, una guardia di frontiera polacca, una psicologa borghese che riscopre la vocazione all’ impegno civile e un gruppo di attivisti per i diritti umani. E poi c’è un epilogo.
La regista ha affermato di aver fatto un’opera di ‘fiction’, piuttosto che un documentario perché le immagini, i personaggi e le loro vicende impattassero sull’emotività dello spettatore, così da provocarne indignazione e un risveglio di coscienza. L’operazione riesce, anche se proprio il cercare la pietà dello spettatore e il suscitare ribrezzo rispetto a brutalità che non risparmiano vecchi, donne e bambini rappresentano forse proprio il limite del film, insieme a qualche passaggio retorico di troppo.

In effetti, nella prima parte del film la Holland sembra voler fare delle analogie tra la condizione dei migranti nel Green Border del titolo, vessati, picchiati, uccisi, deumanizzati e quella degli ebrei nei campi di sterminio. Ma, man mano che il film procede, questa analogia diventa più sfumata, e il film vive di vita propria, si attualizza e nel viaggio reale o interiore dei protagonisti si apre a una dolorosa riflessione su cosa un essere umano sia disposto a fare e sacrificare per fuggire da un regime che l’affama, da una guerra che gli ha tolto tutto e garantire ai propri figli un futuro migliore.
Questo probabilmente è anche merito del contributo di Katarzyna Warzecha e Kamila Tarabura, che sembrano voler inserire l’opera in un contesto di continuità con il grande cinema in generale e con quello di impegno e denuncia, in particolare.

In quest’ottica, quell’inquadratura di un bacio disperato in bilico tra la vita e la morte ne L’infanzia di Ivan di Tarkovskij, viene qui citata come momento di disperata speranza della famiglia siriana che ‘esce dalla foresta’, per abbracciare – forse – quel futuro migliore che aveva sognato e il cui costo si è rivelato altissimo. Questa inquadratura sembra in continuità con il grande cinema dei grandi maestri e suggerisce l’enorme potenziale etico e poietico del cinema nel raccontare storie universali.
Questo film di denuncia dal taglio documentaristico, in cui la Holland racconta una storia, anzi più storie che in qualche modo convergono e si intrecciano, non è una storia di rivalsa o di rivincita; il film piuttosto fotografa con il suo bianco e nero asciutto e rigoroso i mille modi in cui l’umanità può essere declinata e come dare senso al proprio passaggio sulla Terra. Non sono i piedi lavati – quasi in chiave cristologica – dagli attivisti, non la zuppa calda o i panni asciutti che contano per renderci consapevoli. Conta quell’occhio che si specchia nell’occhio dell’altro e che in un istante infinito ne sente e compatisce dolori, paure e sofferenze.

‘Mourir mille fois’, cantano verso la fine del film i ragazzi marocchini e i figli della famiglia polacca che li ha accolti. Volti belli, puliti, colorati che si alternano sulle parole della canzone e giovane speranza di un risveglio di coscienza, racconto doloroso di cosa significhi essere un migrante (di serie B) oggi.
Ed è in questa atmosfera che l’epilogo trova lo spettatore e lo costringe a una riflessione scomoda e dolorosa.
Due anni dopo i fatti narrati, lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina apre i confini e i ‘cuori’ della Polonia a un consistente afflusso di rifugiati. Bianchi. Giusto per sottolineare l’ipocrisia dell’Europa dell’ “unione e solidarietà tra i popoli” rispetto al modo in cui definisce l’Altro.
Il dilemma morale – quello della indifferenza di fronte alla mancata tutela dei migranti non bianchi – diventa insostenibile per lo spettatore che alla fine della visione non può non provare vergogna per girare ogni giorno, nei mille piccoli modi possibili, la testa dall’altra parte.

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