Io sono ancora qui, di Walter Salles (Brasile, Francia/2024)

di Girolamo Di Noto

È ormai dato acquisito dalla nostra cultura che la memoria storica di qualsiasi epoca sia affidata, nella sua forma più persuasiva, al cinema. In molti film, a saper vedere, sono contenute numerose e non scontate informazioni di carattere storico e alcune di esse restano nella memoria per il fulgore di qualche fotogramma o l’emozione di alcune sequenze. Ve sono poi alcuni film, di grande impegno civile, che affrontano in modo diretto eventi scomodi o drammatici per riportarli alla luce, per difenderli dall’oblio. Uno di questi è sicuramente Io sono ancora qui di Walter Salles che ripercorre, attraverso la vita di Eurice Paiva (Fernanda Torres) e della sua famiglia, che il regista conobbe e frequentò, la storia della prima dittatura in America Latina che non fu meno sanguinaria di quelle che precedette: Cile ( 1973 ), Argentina ( 1976 ).

Ispirato alla biografia di Marcelo Rubens Paiva – figlio di uno dei migliaia di desaparecidos vittime della dittatura militare brasiliana degli anni ’70 – il film racconta la storia di una famiglia serena, unita e inseparabile che si ritrova da un giorno all’altro spezzata. Rubens, ex deputato laburista e padre di famiglia (Selton Mello) viene prelevato a casa propria. Tutta quella serenità che c’era prima (musica che risuonava ogni sera, casa sempre piena di gente, viva, stimolante, giornate spensierate passate a nuotare e a giocare a pallone sulla spiaggia di Copacabana) si trasforma in dramma. Nulla sarà come prima.

Candidato a tre premi Oscar, Io sono ancora qui è prima di tutto una testimonianza di messa in mostra del potere, del potere di vita e di morte sugli individui, sui corpi, sui sentimenti, i pensieri, le emozioni. Nel campo cinematografico molti film hanno denunciato senza indulgenze la crudeltà della tragedia dei desaparecidos: gli struggenti ed emozionanti Garage Olimpo e Hijos di Marco Bechis, ma soprattutto la memoria corre a La notte delle matite spezzate di Héctor Olivera che, ispirandosi a fatti e persone reali, descrive gli arresti, la segregazione, le torture subite da un gruppo di giovani studenti argentini.

A differenza del film di Olivera, Io sono ancora qui allude all’orrore piuttosto che mostrarlo. Se Olivera risultava sin troppo esplicito nel voler spiegare la realtà della dittatura, nel descrivere nel modo più dettagliato le torture, Salles limita la rappresentazione della violenza, almeno quella fisica, in immagini che non sono cruente ma sono comunque importanti quanto basta per risultare angoscianti: il rumore di un elicottero militare che passa sopra il corpo di Eunice mentre sta facendo il bagno, lo sguardo improvvisamente serio della donna mentre la famiglia scatta una foto insieme costituiscono i primi indizi di un turbamento che sta per nascere.

Il regista è abile nel saper in contrasto la vita idilliaca e spensierata di una famiglia progressista, aperta alle novità, con la brutalità della repressione e il perno attorno a cui ruota questo cambiamento è la casa dei Paiva, dapprima solare, accogliente, poi improvvisamente buia fino a svuotarsi completamente prima di essere abbandonata. Il primo gesto che fanno i miliziani quando si introducono nella casa per prelevare Rubens è quello di chiudere le tende. Oscure ed anguste sono le stanze delle caserme militari, buio è il destino di chi viene incappucciato, nessuna notizia, nessuna conferma, nessun corpo. Solo l’angoscia dell’assenza.

La dittatura sconvolge la vita delle persone, non dà risposte, smorza canzoni appena intonate con urla e lamenti, crea vuoti incolmabili, morti senza lutto. Costretta a reinventare sé stessa alla luce della sparizione del marito, Eunice comincia la sua battaglia solitaria per conoscere la verità, cercando allo stesso tempo di mantenere unita la propria famiglia. Donna determinata, dallo sguardo che non si abbassa mai, si rimbocca le maniche, ricomincia da capo. Si laurea in legge a 48 anni, diventa un’apprezzata docente universitaria che si batte per le popolazioni native dell’Amazzonia, mantiene la propria dignità e soprattutto è una donna che non si arrende mai e utilizza il sorriso come gesto di sfida contro l’ingiustizia.

“Ci vogliono tristi, sorridete!”, ripete Eunice ai figli quando i giornalisti vanno a casa per fotografarli: si aspettano visi atterriti e invece si ritrovano una donna forte, caparbia di fronte alle avversità, capace di sopportare il peso dell’assenza e la brutalità di un regime che nega l’evidenza, che fa sparire ogni traccia, che nega persino il diritto al lutto perché è consapevole che un desaparecido, non avendo entità, non essendo né morto né vivo, è un’assenza che gli permette di proseguire i suoi atti violenti senza incorrere in nessun reato, data la mancanza del corpo del reato. Eunice otterrà la sua vittoria solo nel 1995, ventiquattro anni dopo che Rubens è finito nel buco nero delle carceri brasiliane. La sua vittoria si materializza in un certificato di morte.

In un’epoca in cui la verità è spesso distorta o dimenticata, Io sono ancora qui è un film assolutamente da vedere perché rappresenta una testimonianza che non smette di ricordarci come la lotta per la giustizia non finisce mai ed è un esempio di cinema che può aiutarci a comprendere meglio il mondo che ci circonda. Un cinema che concentra la sua attenzione sull’importanza della memoria: “una memoria esemplare”, come direbbe Todorov, non statica, fossilizzata che non conduce in nessun punto al di là di sé stessa ma una memoria che permette di recuperare il passato e sfruttarlo come strumento per interpretare e cambiare il presente.

Nel film già citato di Olivera La notte delle matite spezzate solo uno uscirà vivo dall’esperienza, Pablo Diaz, ma la sua vita sarà legata ad un monito ben preciso: “È stato deciso che tu viva, ti porteremo fuori di qui, a patto di dimenticare tutto quello che hai visto. Tu non sei stato qui”. Eunice, invece, dedicherà tutta la sua vita a far sì che non si dimentichi e anche quando l’Alzheimer corroderà da dentro i suoi ricordi, nulla potrà di fronte ad un’immagine impressa nella sua mente e lo sguardo fisso dell’Eunice matura, interpretata da Fernanda Montenegro (nella vita reale madre di Fernanda Torres, anch’essa candidata all’Oscar per Central do Brasil, altro film di Salles), il suo sussulto alla vista in televisione del marito, ormai non più scomparso, è la certezza che non si può dimenticare e il film è straordinario nel riuscire a restituire con forza il dramma di chi resta e lotta per conservare i ricordi.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Blog su WordPress.com.

Su ↑