The Fire Within – A Requiem for Katia and Maurice Krafft, di Werner Herzog (2022)

di Girolamo Di Noto

“Dall’incombere, solo, della morte

con nessuna fuga può giammai difendersi”

Sofocle, Antigone

Al di là di ogni più profonda considerazione, ciò che più colpisce del cinema di Herzog, ogni qualvolta si rivede un suo film o se ne ammira uno nuovo, è la sua ricerca continua di filmare l’immenso, è la sua passione nel cogliere il fascino e l’orrore della natura, è lo scontro titanico e senza tregua dell’uomo con essa, votato inevitabilmente al fallimento. The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice, l’ultima fatica del regista bavarese, rispecchia pienamente i principi cardini del cinema del regista tedesco: un cinema attraversato da uno sguardo sempre orientato a cercare momenti di irripetibilità e unicità, immagini “mai viste”, un cinema puro, che cattura con la forza del suo movimento ipnotico, popolato da individui che, per sete di conoscenza o ostinata follia, sfidano la morte, il rischio, il pericolo.

Il film è un omaggio ai vulcanologi Katia e Maurice Krafft, coppia di alsaziani che ha trascorso la vita a riprendere attività vulcaniche a distanza molto ravvicinata, una passione che ha lasciato testimonianze indimenticabili sull’incantata bellezza e sulla sovrumana potenza della natura, ma che ha portato con sé un sacrificio doloroso che si è materializzato il 3 giugno 1991, in Giappone, sul monte Unzen, quando i due troveranno la morte a causa di una improvvisa, devastante colata piroclastica che li travolgerà insieme ad altri componenti della troupe.

Herzog, entrando in possesso del loro archivio, 200 ore di girato, realizza un film che ripercorre il lavoro dei due scienziati, dai primi filmati girati in Islanda, passando per Stromboli, per la tragica devastazione provocata dal Nevado del Ruiz, in Colombia, e per le rovine lasciate sull’isola indonesiana Una-Una, fino a quel tragico epilogo in Giappone. L’intento del regista tedesco non è però quello di raccontare la loro biografia, ma di usare quelle immagini per raccontare qualcosa in più. “C’è qualcosa in quelle immagini che mi colpisce potentemente come regista”, afferma Herzog all’inizio del film.

Ciò che affascina – innanzitutto – è la meraviglia delle immagini, gli occhi che si spalancano di fronte a paesaggi enormi, in continua trasformazione, in balìa di una potenza distruttiva e creativa. Non sono semplici documenti, da inserire in qualche puntata di National Geographic, non hanno un intento decorativo ed esotico ma lasciano trasparire una vita profonda, una sensazione di forza e costituiscono anche una lezione di cinema, una lezione sullo sguardo perché offrono la possibilità di comunicare realtà altrimenti indicibili attraverso uno sguardo talmente intenso da creare il fantastico ovunque intorno a sé.

Sono immagini che affascinano il regista anche per un altro motivo: i due vulcanologi sono due spiriti herzoghiani, non dissimili dai visionari e folli Fitzcarraldo e Aguirre che si scagliano contro l’ignoto e sfidano forze molto più grandi di loro, né soprattutto sono distanti da un altro eroe romantico, il naturalista Timothy Treadwell del celebre documentario Grizzly Man. Herzog, in entrambi i casi, racconta una tragedia commentando riprese altrui, si sofferma sul rischio di chi vive costantemente con il pericolo e riflette sulla stessa illusione che accomuna i protagonisti, quella di Timothy, ucciso da un grizzly dopo essersi illuso di essere stato accettato nel loro habitat, quella dei Krafft, uccisi da un vulcano mentre cercano di immortalarne l’imprevedibile furia distruttiva.

Come Timothy con gli orsi, anche i Krafft si sono fidati dei vulcani, si sono avvicinati con le loro tute ignifughe translucide, hanno filmato luce colante, inseguendo abissi ed eruzioni, opere di una straordinaria potenza visiva come l’incontro con dell’acqua e del magma, avvenuto durante un’eruzione filmata alle isole Hawaii. Herzog ama questi personaggi, nonostante il prezzo da pagare per coloro che osano “vedere” e far vedere di più sia il fallimento: si identifica con loro.

“Avrei fatto di tutto per essere lì con loro “, aggiunge Herzog ad un certo punto del film e non dimentichiamo che il regista stesso nel 1976 girerà un mediometraggio, La Soufrière, immortalando una delle sue tante imprese folli, il viaggio sull’isola di Guadalupe, nell’imminenza di un’annunciata devastante eruzione vulcanica. Come uno dei suoi eroi ribelli, folli, si avvicinerà al vulcano, si inoltrerà a piedi, raggiungerà la zona proibita, ma per sua fortuna – e anche nostra – le previsioni non andranno a buon fine. Come loro, però, sarà destinato al fallimento: non muore, è vero, ma il vulcano che non esplode si inquadra comunque in una natura che alla fine vince sempre, una natura indifferente che irride la scienza che ne aveva decretato la fine e il testimone che l’aveva sfidata.

Di fronte ad una sconfinata brama di conoscenza o si finisce il viaggio nel tragico o nel patetico. Restano tuttavia vitali quelle immagini – quasi oniriche – che riprendono la natura colta nella sua più selvaggia manifestazione o bellissime quelle sequenze che mostrano villaggi seppelliti da coltri di cenere, tracce di un mondo sepolto, dimenticato e fantastico, sorpreso in un tempo sospeso.

The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft è un viaggio per immagini straordinarie e incredibili, una drammatica parabola esistenziale sull’utopico sogno dell’uomo di poter dominare una natura affascinante ma spietata, un altro splendido capitolo della filmografia di Herzog, cineasta unico, estremo, ricercatore instancabile dei confini inaccessibili della verità e dell’essere.

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