di Alessandro Marzia
-Si… la fabbrica di ghiaccio, intendo, faccio solo questo. Perché ho un sogno: l’Opera, il grande teatro dell’Opera nella giungla.
-Fitzcarraldo lo costruirà e Caruso canterà alla prima. Sono solo i sognatori che spostano le montagne.

Anni 20’. Foresta Amazzonica. Un uomo, una nave e un sogno da realizzare al di là della montagna. Forse questo riassume un film che, dall’ormai lontano 1982, continua ancora a emozionare consegnandoci la sua forza sognante in bilico tra l’onirismo e la realtà.
Il regista tedesco Werner Herzog, che scrive e dirige il film, prende spunto dalla vita del peruviano Carlos Fitzgerald, ricco magnate del caucciù (materiale ottenuto dalla lavorazione di una pianta chiamata Hevea Brasiliensis) vissuto a cavallo tra l’’800 e il ‘900. Quest’uomo si racconta che sia stato in grado di smontare e rimontare una nave intera per portarla oltre una collina che divideva due fiumi paralleli, per superare l’ostacolo e raggiungere il territorio desiderato.
Il protagonista del film, però, nonostante mantenga la stessa determinazione del magnate peruviano, ha obiettivi e slanci ben diversi. Herzog con questo film torna a trattare il tema dell’inadeguatezza sociale, disegnando un personaggio pur a suo modo affascinante, comunque disadattato.

Negli anni ‘20 in Perù, Brian Sweeney Fitzgerald (chiamato Fitzcarraldo dai nativi che non riescono a pronunciare il suo nome) è un uomo di origini irlandesi, ed ha una bruciante passione per l’opera lirica. Il protagonista, infatti, sogna di portare il grande teatro dell’opera con i suoi nomi più importanti (primo fra tutti Caruso, da lui tanto stimato) nella sua cittadina di residenza nei pressi della giungla: Iquitos. Ostinato e folle, Fitz cercherà in tutti i modi di portare a compimento questo suo sogno riuscendoci solo in parte.
Un personaggio così complesso, ovviamente, richiede un altrettanto grandiosa interpretazione. Klaus Kinski torna a lavorare col regista tedesco dopo i pilasti del cinema europeo “Aguirre, furore di Dio” e “Nosferatu, il principe della notte”, vestendo per la prima volta i panni di un essere privo di quella forza maniacale che tanto aveva caratterizzato i suoi precedenti ruoli e regalandoci un’interpretazione memorabile. Kinski riesce perfettamente a conciliare le riprese ascetiche di alcuni passaggi, in cui il tempo e lo spazio sembrano fermarsi per lasciare spazio alla preghiera e alla contemplazione, con momenti di tensione e attesa, che giocano un ruolo cruciale per l’intera pellicola conferendogli una struttura più rigida, riuscendo perfettamente ad incarnare quella forza sognante scritta da Herzog, sul filo del rasoio, al limite tra l’umano folle e il divino selvaggio; un po’ come lo stesso Kinski. Un genio urlante. Herzog in un’intervista lo ha persino definito come “un cavallo da corsa: isterico, incline al panico, che corre come un matto per un miglio e poi, appena passata la linea del traguardo, collassa”.

Nel corso del film, Fitzcarraldo, accompagnato dalla sua compagna Molly, interpretata dalla splendida Claudia Cardinale, subirà una serie di antipatiche umiliazioni da parte dei ricchi magnati del caucciù. Rivelatrice è la scena in cui Don Aquilino, uno degli aristocratici più rispettati, esuberante e sarcastico, getta i soldi nella piscina con i piragna, che inghiottiscono le banconote in pochi secondi. Questo gesto dimostra come tutti i potenti della città non credano nei progetti di Fitz e che preferiscano dare i propri soldi in pasto ai pesci piuttosto che investirli per finanziare una delle sue idee. Il concetto viene approfondito più volte nella pellicola; Fitzcarraldo in fondo è il “conquistatore dell’inutile” per eccellenza. Tutte le sue energie vengono impiegate per il raggiungimento di obbiettivi futili. Herzog ci da una finestra da cui osservare il nostro stesso mondo dove tutto ciò che conta sono solo i beni materiali e chi sogna è ormai considerato una specie in via di estinzione.
Si può dire che la sceneggiatura segua una struttura tripartita. Nella prima parte il protagonista inizia a covare l’idea di una spedizione. Convinto dalla stessa compagna, decide di investire nella raccolta di caucciù al fine di poter finanziare il suo sogno di portare l’opera nella giungla. Il fiume dove si trovano più alberi di Hevea Brasiliensis è l’Ucayali. Questo, però, è spartito tra i magnati del periodo, che quindi non gli consentirebbero il passaggio. Fitz, ad un certo punto, viene a sapere di una zona ricchissima di alberi, ma che si trova nel corso superiore del fiume, dove l’affluenza con il Rio delle Amazzoni e la presenza delle violentissime rapide del Pongo las Mortes impediscono il passaggio alle imbarcazioni. Brian Sweeney decide comunque di raggiungere la zona, passando, però, dal fiume parallelo, il Pachitea, trascinando la nave oltre una collina che divide i due corsi d’acqua, in un punto ben preciso in cui i due fiumi quasi si toccano. Parte della prima fase è ovviamente dedicata alla presentazione dei vari personaggi e del contesto in cui vivono. Herzog ci mostra un affresco della vita quotidiana ad Iquitos, da una parte fatta di strade fangose, palafitte, animali esotici e schiavi, dall’altra di ricchi uomini di potere, prepotenti imprenditori europei e palazzi barocchi che sfoggiano ricchezza da ogni poro. Su questo sfondo, Fitzcarraldo riesce a superare le frustrazioni e, con l’aiuto dell’amante, compra una nave e riesce a mettere in piedi un equipaggio.

La seconda parte ha inizio con la partenza della ciurma. La vera protagonista di questa fase è forse la stessa imbarcazione, la Molly-Aida, così chiamata in onore della finanziatrice. Herzog, con l’aiuto del suo storico direttore della fotografia Thomas Mauch, che cura anche numerosi movimenti di macchina, riesce a dare voce alla stessa nave bianca. Le riprese della Molly-Aida che avanza per il fiume, fatte da imbarcazioni terze in moto, giocano un ruolo cruciale nella costruzione di questa grande entità dando il senso dello spazio e del movimento. Più la meta si avvicina più la nave sembra acquisire quest’energia intrinseca fino a immergersi completamente nella giungla e sparire tra le verdi foglie e le liane nervose della selva selvaggia con uno stile quasi mitologico.
Il viaggio verso la meta, oltre ad essere caratterizzato da questa divinizzazione crescente del mezzo in quanto entità su cui l’equipaggio si sposta, è caratterizzato anche da un sentimento di attesa e tensione che si sviluppa, però, all’interno dell’imbarcazione stessa. Abbiamo la percezione che stia per succedere qualcosa, le riprese con la camera a mano, descritte in più occasioni da Herzog come “più vere”, danno un senso di spaesamento. Se da un lato il dissolversi tra le fronde ci trasmette un sentimento di epicità distacca, dall’altro siamo totalmente dentro la nave e abbiamo costantemente una sensazione di timore per l’arrivo dell’inevitabile, l’avvicinarsi dell’agguato. È ormai iconica la scena in cui Fitz, sul tetto della nave, in un momento in cui si sentono i tamburi minacciosi degli indios (i cosiddetti “selvaggi della foresta Amazzonica”) provenire dall’interno della giungla, probabilmente quelle musiche avevano la funzione di dare un ultimo avvertimento alla truppa prima dell’assalto, decide di placare gli animi dei “culi nudi” non con la violenza, ma utilizzando la voce di Caruso. Le note che effluiscono dall’amato grammofono di Fitz, inondano la foresta addolcendo i tamburi dei nativi, sino ad arrivare ad una perfetta sincronizzazione tra le due trame musicali: i tamburi si uniscono perfettamente all’opera cantata da Caruso e si ha l’idea di un accordo tra i due mondi, come se, con l’incontro e lo sposalizio di due musiche provenienti da mondi estremamente differenti tra loro, si sia riusciti ad arrivare ad un confronto pacifico tra due culture. Questo momento, oltre a portare con sé un grande fascino estetico e sonoro, ha anche un forte valore simbolico: l’arte che unisce e placa le anime, salvandoci da tutti i mali.

Poco più avanti Herzog continua a farci riflettere sulla figura del disadattato: le tribù indios riconoscono in Fitzcarraldo il loro Dio, e per questo smettono di minacciare la nave ma piuttosto decidono di salirci su per onorare il proprio salvatore. Secondo la loro cultura, nella terra in cui vivono non è stato ancora concluso il progetto divino, vivono nella costante attesa di un’imbarcazione di colore bianco guidata da un salvatore, che accompagnandoli attraverso le rapide del Pongo la Mortes, metterà fine alle loro sofferenze, placando gli spiriti maligni della foresta, per poi portarli nella terra promessa. Il passaggio ci fa riflettere su come sia volubile la nostra percezione della realtà e come qualcuno che è ritenuto buono a nulla o pazzo da alcuni è Dio per altri. “Solo chi sogna sposta le montagne” e gli indios, con la loro forte dignità silenziosa, percepiscono quest’energia sognante e aiuteranno Fitz nella realizzazione del suo progetto, riuscendo miracolosamente a trasportare la nave oltre il poggio che divide i due fiumi.
Le sequenze di lavoro sono caratterizzate da riprese dallo stile documentaristico, tipico del regista (Herzog inizia, infatti, la sua carriera come regista di documentari), mantenendo, però, una certa poetica, con movimenti di macchina dall’alto verso il basso, quasi a suggerire un’ascesa di Dio, o del divino, sulla terra. Inoltre, nel momento in cui la nave sale effettivamente la montagna, la fotografia sfocata e pallida ci suggerisce la sensazione di essere all’interno di un sogno delirante, come se quello che sta succedendo sia solo una proiezione dell’immaginazione del protagonista e costituisca il raggiungimento di qualcosa di vanescente. Se, quindi, da una parte avvertiamo un certo presagio dalla sequenza dai toni celesti, dall’altra si rafforza l’idea che la nave, divenuta ormai personificazione del sogno, prende sempre più corpo. La Molly-Aida è diventata a tutti gli effetti un grande essere con una volontà propria che si nutre di sogni e opera lirica.

Il presagio negativo viene più avanti confermato quando gli indios, per tenere fede alla credenza che ho precedentemente descritto, decidono di liberare la nave giù per le rapide del Pongo e di salirci sopra. Sono leggendarie le sequenze dell’imbarcazione che precipita tra le violente correnti del Pongo, con l’intero equipaggio all’interno. Il tutto è ancora più impressionante se pensiamo al fatto che Herzog, come suo solito, anche in questo film decide di girare tutto senza l’aiuto di effetti speciali, per dare un sentimento più vero e crudo allo spettatore. È questa la grandezza maestosa che pervade l’intera durata del film. Il direttore della fotografia, Thoma Mauch, si tagliò la mano in due durante le riprese sulla nave che viene scaraventata contro le pareti rocciose “dagli spiriti maligni del Pongo”, tanto erano pericolose le condizioni in cui si girava. Ed Herzog riuscì veramente a trascinare una nave su per una collina con il solo aiuto di corde e attrezzature abbastanza rudimentali, riuscendo a far recitare dei veri indios.
La terza ed ultima fase ha inizio con il ritorno dell’ormai lacerata imbarcazione ad Iquitos: i protagonisti sono i primi in tutta la storia ad essersi azzardati di percorrere le rapide più pericolose d’America, uscendone vivi e incolumi. Fitzcarraldo, però, nonostante sia riuscito in questa sua impresa titanica, non è stato in grado di concludere nulla di concreto. Herzog che per tutta la durata del film costruisce un climax perfetto, una trasformazione da umano a divino di questo stravagante personaggio, decide di farlo fallire. Fitzcarraldo cade dal cielo e ritorna ad essere un sognatore umiliato, come se si fosse appena svegliato da un sogno grandioso. L’eroe del regista tedesco, però, non si lascia abbattere e decide di ingaggiare cantanti e orchestra dal teatro d’opera più vicino per farli esibire sulla sua nave ad Iquitos, davanti a tutta la città. Seppure il finale abbia un tono amaro, rimane accesa la luce della speranza, Herzog con questa sua opera invita il pubblico a sedersi e godersi lo spettacolo.

Nonostante la sconfitta, tutto ciò continua a essere vissuto come una fede indissolubile in qualcosa di religioso dal protagonista. Non a caso il regista tedesco parla spesso di fede nel suo libro “La conquista dell’inutile”, in cui racconta i quasi quattro anni che sono stati necessari per realizzazione della pellicola. Il set di Fitzcarraldo, infatti, fu uno dei più tormentati dell’intera storia del cinema, a partire dalla scelta degli attori; Claudia Cardinale in una sua intervista racconta che “il primo protagonista doveva essere Warren Oates, […] ma improvvisamente diede forfait, si tirò indietro preoccupato di lavorare in quei posti infernali, aveva paura delle malattie e di tutto il resto.[…] Poi fu scelto Jason Robards […] Iniziammo le riprese a Manaus in Brasile, con le scene di massa; era il gennaio 1981, c’erano pure Mick Jagger, Mario Adorf e altri ancora. Ma un mese e mezzo dopo, Robards si prese un esaurimento nervoso, per il caldo, il mangiare, i disagi della giungla, una vita impossibile per lui. Abituato alle comodità di New York. […] Ma a giugno Klaus Kinski accettò di fare il protagonista, anche se dopo “Aguirre” aveva giurato che mai più sarebbe tornato nella giungla insieme ad Herzog. Mick Jagger e Mario Adorf avevano altri progetti e se ne andarono, ma finalmente il film poteva partire”. I problemi continuarono anche dopo l’arrivo del cast definitivo. Nell’accampamento di circa 1100 persone, con tanto di prostitute sul set (“servivano a mantenere calma la troupe” scrisse Herzog), fatto costruire appositamente per le riprese del film, infatti, ne successero di cotte e di crude: l’accampamento fu distrutto più volte, prima da una guerra di frontiera che si stava svolgendo nei paraggi, poi dall’arrivo della stagione delle piogge. Nonostante i numerosi imprevisti, però, Herzog ha definito la sua esecuzione “estremamente disciplinata ma fatta in circostanze molto difficili”.

Fitrcarraldo è un’opera meravigliosa che risveglia i nostri desideri più profondi, ci dà la forza di sognare, di essere fieri anche nella sconfitta, di trovare il piacere nel dolore e nella passione per qualcosa. Fitz è un personaggio estraneo al mondo perché vive dentro ognuno di noi. Una pietra miliare della storia del cinema tedesco ed europeo che tocca temi altissimi come l’opera lirica, il dialogo tra culture differenti e trattando argomenti di stampo filosofico quali la percezione del pazzo e l’umana volontà come divina: l’essere umano è l’unica forza divina presente sul nostro pianeta, e solo grazie alla volontà può spostare le montagne e realizzare i propri sogni. Anche gli indios a modo loro sono stati capaci di realizzare la propria visione, e anche gli indios si sono trovati a conquistare l’inutile. Quella che percepiscono come una terra promessa, altro non è che una disordinata città immersa nel fango. Herzog come mai prima d’ora realizza un film che non rispetta minimamente i canoni hollywoodiani, sia in termini di produzione che stilistici. Fitzcarraldo è una pellicola che gioca a rimanere in equilibrio sulla linea che divide la realtà dall’immaginazione, il fallimento dalla vittoria, fino a confondersi tra loro e mescolarsi, proprio come Fitz e il suo equipaggio con le tribù della foresta.

Che pazzo Herzog, hanno davvero portato quella nave sulla montagna. Un modo di far cinema che ormai si vede pochissimo.
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