Moving, di Sōmai Shinji (Giappone/1993)

di Girolamo Di Noto

I film di formazione conservano sempre qualcosa di unico che consente allo spettatore di entrare in contatto, in qualche modo, con la storia che raccontano. In Moving, probabilmente la pellicola più nota del regista giapponese Sōmai Shinji, ciò che aggancia e rende saldo lo sguardo di chi filma e la sensibilità di chi si appresta ad accogliere riflessioni e immagini, è l’aspetto continuamente irrequieto, “in movimento”, della protagonista, Renko, una piccola bambina di 11 anni, che deve affrontare, suo malgrado, la separazione dei genitori, ritrovandosi catapultata in un universo di vita completamente nuovo, inatteso, in cui dover crescere in fretta.

Presentato a Cannes nel 1993, nella sezione Un Certain Regard, che quell’anno comprendeva, tra gli altri, anche Sonatine di Kitano, Moving non è solo un racconto di formazione che mette in scena il dolore violento di una bambina che vede frantumarsi la sua famiglia, non è solo uno spaccato amaro sull’infanzia e l’iniziazione alla vita attraverso il dolore e la perdita, ma è anche una toccante, onirica elaborazione di un lutto, presente soprattutto nella seconda parte del film, attraverso immagini che evocano una rara bellezza. Incentrato sulla crescita emotiva di una ragazza sensibile, vivace e intelligente, il film non si limita a mostrare i silenzi degli adulti, il tentativo di Renko di far riconciliare i genitori, la fase di ribellione della bambina, ma sa ben rappresentare un percorso formativo che evade dalla realtà, in perfetto equilibrio tra realismo e onirismo, arrivando a sottolineare come l’anima delle persone sia in continuo movimento, in cerca del proprio posto nel mondo.

Acqua e fuoco sono elementi utilizzati dal regista per evidenziare, nello stesso tempo, distruzione e rinascita, metafore visive di grande impatto che illuminano la realtà interiore della bambina, alle prese con una sorta di frattura tra la realtà e le sue emozioni interiori: il fuoco è tumulto dell’adolescenza, ruggisce, consumando ciò che un tempo le aveva portato felicità, è incendio provocato deliberatamente a scuola per attirare l’attenzione, è celebrazione di vita, forza purificatrice che le aiuterà a superare i momenti avversi quando comprenderà che non sempre si può ottenere ciò che si desidera.

Il percorso di crescita e maturazione che è imposto a Renko trova l’apice nelle scene notturne ambientate durante il festival estivo che celebra il ritorno alle famiglie degli spiriti dei defunti sul lago Biwa: è proprio nelle acque del lago che la bambina dice addio alla sua infanzia, attraverso due sequenze di rara bellezza visiva che testimoniano un incontro onirico. Nella prima una giovane Renko e i suoi genitori giocano affettuosamente vicino ad una barca drago che arde di luci natalizie e di lanterne. Improvvisamente le vele prendono una scintilla, la barca, che richiama alla mente scenari felliniani, è in fiamme e quella vita familiare programmata e sognata si dissolve come le ceneri spazzate via dalle onde.

Nella seconda sequenza si vede Renko un po’ più adulta abbracciare e salutare la se stessa bambina, quasi a voler testimoniare un passaggio di consegne: non c’è più tempo per la bimba che è stata, quella che si relazionava ai suoi genitori come se fossero amici, la Renko che si illudeva di aggiustare la sua famiglia disfunzionale nascondendo le carte del divorzio, non accettando il contratto di convivenza scritto dalla madre per fissare i parametri della nuova quotidianità madre-figlia, non c’è più tempo per la Renko che era convinta, quando il padre si trasferirà in un altro appartamento, che “il mio armadio è collegato con il tuo”, come se ci fosse un tunnel magico tra i due, per lei è arrivato invece il momento di dire addio alla sua infanzia e di dover abbracciare un nuovo futuro, in cui recuperare quel calore umano di cui la frantumazione della famiglia l’ha privata.

Moving è una meditazione suggestiva sull’infanzia, una riflessione profonda sull’importanza del saper lasciarsi alle spalle i dolori passati, una storia toccante che trova nella magnifica interpretazione dell’allora dodicenne Tabata Tomoto la sua forza trascinante, un film di mirabile delicatezza, splendidamente realizzato da un regista scomparso troppo presto, molto amato da Bertolucci e da autori giapponesi contemporanei come Kore-Eda Kirokazu, uno dei pochi che ha saputo raccontare i tumulti dell’infanzia e dell’adolescenza con sguardo severo e amorevole allo stesso tempo, invitando comunque ad essere felici, nonostante tutto.

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