di Laura Pozzi

La 37° edizione del Torino Film Festival ha aperto le danze con JoJo Rabbit film vincitore a Toronto qualche mese fa e divenuto già un piccolo”caso”. Fin dalle prime fasi di lavorazione, la pellicola di Taika Waititi basata sul libro Caging Skies di Christine Leunens ha suscitato immediato interesse e curiosità provocando un fervido entusiasmo in parte discutibile. L’intento di Waititi (regista di Thor Ragnarok) è senza dubbio nobile e decisamente ambizioso e di certo non gli si può negare un coraggio d’altri tempi nel rischiare in prima persona e nel raccontare una storia che non cesserà (giustamente) mai di far discutere.

JoJo (la rivelazione Roman Griffin Davis) è un ragazzino di dieci anni convinto assertore del nazismo e stretto confidente di Adolf Hitler, suo amico immaginario a cui rivela inquietudini e debolezze tipiche della sua età. Siamo nella Vienna nazista, in pieno conflitto mondiale e il sogno di JoJo è quello di diventare un perfetto soldato degno del suo Fuhrer. Arruolatosi tra le fila della gioventù hitleriana, durante una giornata di addestramento viene deriso e tacciato di viltà per non aver ucciso un coniglio. Di qui il soprannome che segnerà il suo incerto destino, reso ancora più improbabile da un incidente avvenuto per aver lanciato (su suggerimento di Hitler) una baionetta come prova di forza. E come ciliegina sulla torta, si trova nascosta in casa con la complicità della madre una giovane ebrea, con la quale vivrà uno strano e tenero idillio.

Waititi, realizza una commedia nera avvalendosi di una sceneggiatura caratterizzata da battute taglienti e dissacratorie, ma dalla dubbia efficacia. L’obiettivo è quello di realizzare attraverso una narrazione grottesca e a tratti surreale una critica sociale attraverso il linguaggio della satira. La prima parte particolarmente pimpante e irriverente fa leva su una comicità rudimentale, strappando qua e là qualche timido sorriso dovuto al carattere marcatamente caricaturale del dittatore. Certo Hitler è un personaggio sul quale c’è ben poco da ironizzare, ma confinarlo al ruolo di pedante grillo parlante o di semplice macchietta appare un tantino riduttivo e poco utile alla causa. Tra l’altro il film non può esimersi dal fare i conti con illustri predecessori quali Train de vie, La vita è bella e sopratutto Il grande dittatore. Waititi non è Chaplin e ogni confronto sarebbe impietoso, ma la superficialità e la retorica con le quali porta avanti il suo discorso risultano poco incisive. L’orrore del nazismo non può essere esorcizzato o trattato attraverso siparietti più o meno riusciti, ne tantomeno con una presa di coscienza abbastanza ovvia quanto dolorosa. L’incontro clandestino con Elsa avviene in un momento cruciale, quando divise e svastiche non rappresentano più autentici motivi d’orgoglio e di appartenenza, ma simboli sui quali riflettere. Hitler non è più un idolo, un leader, un campione da tifare, ma uno spietato carnefice impossibile da metabolizzare. E l’idea di riderci su convince sempre meno, mentre la scelta di continuare a ballare nonostante tutto, appare un sincero e toccante messaggio di speranza a non mollare mai.

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