di Laura Pozzi

A cinque anni di distanza da Buoni a nulla (2014), torna il cinema lieve e garbato di Gianni Di Gregorio. Stavolta accanto alla proverbiale leggerezza tipica delle sue opere, fa capolino una struggente malinconia dovuta alla presenza di Ennio Fantastichini qui alla sua ultima interpretazione. La prematura scomparsa dell’attore avvenuta un anno fa, suscita inevitabile e sentita commozione impreziosendo la storia di umana profondità. Ma Di Gregorio ha talento particolare nel riuscire laddove la maggior parte degli sceneggiatori e registi italiani incespica continuamente: fa ridere. Il suo è un umorismo puro, genuino, mai volgare, intriso di autentica sincerità. Sembra un dettaglio da poco eppure l’incisività e credibilità delle sue storie nasce da personaggi assolutamente consapevoli del loro ruolo.

Gianni, un distinto settantenne in pensione ex professore di latino e greco trascorre gran parte delle suo tempo in compagnia di Giorgetto (Giorgio Colangeli) indolente perdigiorno che sogna di espatriare e vivere degnamente con “la minima”. L’Italia nonostante le apparenze non è un paese per vecchi, lo sa bene Attilio (Ennio Fantastichini) vulcanico rigattiere sempre pronto a ripartire in sella della sua vecchia Triumph alla ricerca di terre lontane. I tre convinti a cambiar vita al grido di non è mai troppo tardi si rivolgono ad un esperto in “fughe” (l’irresistibile Roberto Herlitzka) prodigo di consigli. Tra dubbi e perplessità la scelta ricade sulle isole Azzorre, destinazione non troppo lontana, ma nemmeno troppo vicina, insomma una classica via di mezzo. Ma lasciare la capitale con le sue ataviche contraddizioni e sonnacchiose abitudini, si rivelerà più arduo del previsto.

Lontano Lontano lungi dall’essere un film sulla terza età, rivendica il suo carattere profondamente idealista attraverso la pigra vitalità di personaggi tratteggiati con cura e riguardo, ma soprattutto rispetto verso lo spettatore. Di Gregorio non racconta nulla di eccezionale, non gli interessa, non è nel suo stile, eppure le fantasie dei tre attempati sognatori risultano talmente familiari da farceli amare incondizionatamente. Questo grazie ad una comicità popolare mai ostentata o peggio ancora urlata. Il regista sa cogliere e valorizzare al massimo lo spirito affettuosamente cialtrone di questi figli della lupa, mai realmente cresciuti e mai realmente invecchiati. Per loro il tempo non rappresenta un qualcosa da impiegare, ma da lasciar peregrinare tra pittoreschi vicoli trasteverini, in compagnia di gente comune e verace. Così i maldestri tentativi nel provare a cambiare le cose si risolvono in grotteschi siparietti tragicomici non oltrepassando quasi mai l’imponente, ma rassicurante Porta Settimiana. Una sorta di gabbia dorata perché in fondo la città eterna, pur essendo un’ingombrante e distratta genitrice trova sempre il modo di farsi perdonare e convincere i figliol prodighi a restare. Il film nel suo disarmante candore non perde di vista la realtà ed è tutt’altro che innocuo nell’affrontare il disagio di vivere in un Paese culturamente arretrato e non sempre all’altezza dei propri limiti. L’emblematica figura di Abu, giovane maliano che sogna una vita in Canada diventa motivo di riflessione tutt’altro che banale. E quell’ultimo gesto di Ennio Fantastichini pur nascondendo un’amara verità, va dritto al cuore trasformando il suo congedo in uno dei finali più belli di sempre.

è triste non poter più rivedere Fantastichini sullo schermo
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