di Venceslav Soroczynski
Alla luce dei caminetti accesi nelle stanze di una casa scavata nella roccia in una sperduta cittadina dell’Anatolia, i componenti di una famiglia si guardano negli occhi e parlano. Parlano per tutto il film, mentre il fuoco imprime sagome d’ombra sui muri di pietra ocra e, al di là delle finestre, si apparecchiano distese di cavalli vinti e neve indomabile. Gli esterni inospitali e i morbidi arredi ci danno la sensazione visiva che la storia si svolga in un castello che sta sull’ultimo chilometro quadro prima della fine del mondo.
Se è vero che l’occhio vuole la sua parte, questo film gliela dà senza risparmio.
La sceneggiatura ha un taglio teatrale ed è scandita da un pianoforte malinconico che mi dà l’impressione di accompagnare qualcosa che sta per finire per sempre. Non perché si è rotta, ma perché non può funzionare, non poteva funzionare dall’inizio dei tempi.
Quasi non c’è azione, in questo film. Ma l’azione non è necessaria perché duecento minuti passano in un attimo, perché cosa sono tre ore, se le trascorrete dentro un albergo muto, se dividete i pasti con i suoi abitanti, le loro coperte, le loro ciabatte? A parte le mura di roccia che costituiscono le pareti delle case, a parte un silenzio di quelli che si condividono solo con i cani e le lepri, siamo molto vicini al nostro mondo.
Ed ecco la grandezza di questa pellicola: l’essere fuori dallo spazio e dal tempo, pur restando assolutamente contemporanea. “Parla del tuo villaggio e parlerai al mondo”, scrisse Tolstoj. Nel microcosmo della Cappadocia contemporanea, si rappresenta l’uomo di tutti i tempi, la coppia di tutti i tempi, la famiglia di tutti i tempi, il rapporto fra tutti i padroni e tutti i servi, fra i potenti e i sottoposti, i possidenti e gli indigenti, gli idealisti e i materialisti, i passionali e i prudenti.
Forse, non è nemmeno un film, questo: è teatro, o addirittura un racconto sussurrato alle nostre orecchie che, come quelle dei bambini prima di dormire, si sono arrese alla storia perché sanno che la storia della sera è la fine del giorno.
Così, questo film suona la parola “fine” delle discussioni sul giusto e sullo sbagliato, sul possibile e l’impossibile, sulla bontà e sulla viltà. Il contrasto sui grandi temi non ha soluzioni, non prevede accordi – all’interno di una famiglia più che altrove. Ma chi riesce a spiegare i propri punti di vista senza urlare riesce anche a comprendere la propria debolezza. Riesce a perdere con onore. Chi non grida, può udire le parole dell’altro.
Magistralmente, la dichiarazione d’amore finale è proprio un’ammissione del grande senso d’impotenza dei potenti, che ne vengono investiti come noi tutti, ma che essi non possono dichiarare.
Sul nostro calendario è ancora presto, ma nel Regno d’inverno sta già nevicando. Sotto quella neve, lentamente e silenziosamente, i volti di quei personaggi vi daranno la prova che il cinema rappresenta ancora qualcosa. Che può dire qualcosa di vero, senza fare rumore.
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