Distretto 13 – Le Brigate della morte (1976), di John Carpenter

di Laura Pozzi

Assault on Precint 13 (traduzione italiana Distretto 13 – Le brigate della morte) rappresenta una delle vette più significative del cinema di John Carpenter. Basterebbe la sola visione di questo film  (opera seconda dopo lo sperimentale e cosmico Dark Star) girato in appena 24 giorni con un budget ridotto all’osso (centomila dollari) per comprendere la grandezza di un cineasta spesso snobbato e liquidato frettolosamente come regista di folgoranti B-movie, divenuti nel tempo autentici cult. Opinione apparentemente plausibile dalla quale Carpenter riesce a smarcarsi grazie ad un cinema  volutamente “contaminato” e stilizzato secondo la sua personalissima ed eclettica visione. Distretto 13 è in primis un sentito omaggio al cinema classico e un’appassionata dichiarazione d’amore al suo mentore e padre putativo Howard Hawks. Siamo nel 1976 e nella mente del cinefilo John aleggia da tempo l’idea di un film western, ma date le ristrettezze economiche è costretto a riversare il suo  amour fou su un’audace ed inedita rivisitazione di Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959).

 Replicando lo schema hawksiano e firmando il montaggio con lo pseudonimo di John T. Chance ( il personaggio interpretato da John Wayne in Rio Bravo), il regista americano costruisce attraverso un livido e geometrico congegno narrativo un cupo e tenebroso western urbano rileggendo, ma in parte “sporcando” gli stilemi del genere con tocchi e padronanza da vero maestro. Centro nevralgico dell’azione e teatro di una sanguinosa vendetta voodoo è il funesto e spettrale distretto 13 un avamposto sorto in un tombale quartiere di Los Angeles, in procinto di essere dismesso. Al suo interno Ethan Bishop (Austin Stoker) tenente fresco di nomina chiamato a presidiare lo smantellamento, due segretarie e un agente in servizio. Con il trascorrere delle ore e per i motivi più disparati si aggiungeranno un gruppo di condannati (fra i quali spicca il cavaliere solitario e vero antieroe della storia Napoleone Wilson) costretto a fermarsi per un malore accorso ad uno di loro e un uomo fuori controllo colpito da un’allarmante afasia. Un gruppo di “tagliati fuori” messi insieme dal caso o dal destino la cui unica colpa è trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel frattempo a loro insaputa (ma non a quella dello spettatore) prende vita dall’esterno un’oscura minaccia capitanata da indistinte figure senza volto simili ai morti viventi di Romero apparsi sullo schermo otto anni prima.

Improvvisamente il buio e l’inizio di un interminabile assedio dove cio’ che e’ conta sopravvivere, non importa come. Il distretto assume le inquietanti sembianze di un orrorifico Fort Apache circondato, bersagliato, crivellato da colpi silenziati e inudibili. Il baratro è vicino, così come un impossibile happy end. Carpenter con incredibile destrezza e lucidità realizza in 90 minuti due film in uno. Il primo riservato allo spettatore: cronometrando scrupolosamente tutte le fasi del racconto attraverso lo scoccare delle ore, il regista restringe, ma nello stesso tempo dilata il tempo d’azione nell’arco di una giornata. Allo spettatore non viene risparmiato nessun dettaglio, dal concitato incipit in cui un gruppo di feroci assassini viene freddato dalla polizia, all’ideazione della vendetta da parte della restante gang criminale fino alla provenienza di ognuno degli occupanti del distretto. Il tutto esasperato dalla barbara e disumana sequenza della bambina con il gelato (scena di intraducibile crudeltà che incorrerà in non pochi problemi di censura).

 Se lo spettatore assurge a ruolo di testimone privilegiato, lo stesso non può dirsi per gli sventurati protagonisti. A loro Carpenter concede solo una gigantesca bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Tuttavia è grazie a quella drammatica esplosione se il “nostro” sguardo puo’ accedere nel distretto e convergere con il “loro”. Finalmente siamo in grado di approcciare la medesima realtà, grazie anche all’utilizzo dell’amatissimo cinemascope in grado di rendere più minacciosi gli esterni e di ampliare gli spazi tra i personaggi e il vuoto assordante della stazione di polizia. Carpenter esprime e racconta il mondo non attraverso le immagini, ma attraverso la serialità e ripetizione di inquadrature prive di controcampo. Ed è proprio questo “strappo” a distanziarlo dal classicismo di Hawks: laddove ad un campo (quindi ad una causa) corrispondeva un controcampo (un effetto) nell’universo del sommo John il secondo termine tende progressivamente a scomparire, come ben evidenziato nella scena della sparatoria, dove sotto una pioggia incessante di colpi lo spazio si restringe popolandosi di elementi, per poi a sparatoria finita allargarsi e popolarsi di figure umane. Le sue opere stuzzicano di continuo la fantasia dello spettatore rendendolo partecipe e costantemente in tiro. L’inquietudine e la tensione proliferano in quel regno dell’invisibile pronto a (non) essere svelato. Del resto è lo stesso Carpenter a trovarsi spalle al muro di fronte ad un reale astruso costantemente sedotto dal male. Se il suo cinema è un piacere per gli occhi, è ancor di più musica per le orecchie. Autore delle colonne sonore dei suoi film più celebri, l’elemento sonoro è imprescindibile nelle sue opere. L’utilizzo non si limita a semplice accompagnamento musicale, ma si tramuta in linguaggio verbale. La stringatezza dei dialoghi e il sottile vuoto interiore dei personaggi viene caratterizzato e compensato da frasi elettroniche capaci di sostituire le parole e avvolgere lo spettatore nella morbosità di rarefatte e indimenticabili atmosfere.

Se è vero che Carpenter è uno dei maggiori autori affascinati dal mistero, è altrettanto vero che non svelando il mistero sulla curiosa origine del suo nome il vincitore morale di Distretto è a tutti gli effetti Napoleone Wilson (Darwin Joston), che nel suo essere immancabilmente fuori tempo diviene icona immortale, seconda solo (ma per chi scrive assolutamente no) a Snake (Jena) Plissken.

2 risposte a "Distretto 13 – Le Brigate della morte (1976), di John Carpenter"

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  1. Splendida (e appassionata!) recensione di un grandissimo film del maestro John Carpenter! L’ho subito aggiunta sotto quella che ho scritto sul mio blog, naturalmente in linea con le belle parole che hai speso su questo film!

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