‘Cronaca di un amore’ (1950), di M. Antonioni. Il fascino vacuo della borghesia.

di Marzia Procopio

Primo film diretto da Michelangelo Antonioni, “Cronaca di un amore” segnò nel 1950 un forte punto di discontinuità nel cinema italiano, perché in esso il regista, che esordiva nel lungometraggio all’età di trentotto anni dopo una lunga esperienza nel campo del documentario, scelse come oggetto della sua osservazione, in luogo dei temi cari al neorealismo, la borghesia del Nord Italia, ritraendone egoismo e capricci non solo attraverso le innovazioni registiche – il piano-sequenza, per esempio – ma anche attraverso l’attenzione filologica a scenografie e costumi e la musica di Giovanni Fusco, che vinse nel 1951 il Nastro d’argento. Non “un film bello”, ma “un film importante”, fu definito dal critico e sceneggiatore Guido Aristarco alla sua uscita, perché vi si potevano intravedere sia la preparazione teorica di Antonioni sia la sua esperienza, maturata appunto nel campo del documentario e in quello della direzione degli attori.

Racconto nero di un triangolo amoroso ambientato nella Ferrara alto-borghese, il film fu premiato con un secondo Nastro d’argento al regista per i suoi “valori stilistici e umani”. In esso, la oggi compianta e bellissima Lucia Bosé, all’epoca attrice esordiente, interpreta Paola, moglie di un ricco affarista milanese, che con un ex amore ritrovato, Guido-Massimo Girotti, progetta l’omicidio del marito, un eccellente Ferdinando Sarmi. Il piano fallisce, perché ad Antonioni non interessa raccontare la storia di un amore o di un omicidio riusciti, ma al contrario l’impossibilità di vivere una passione non abbastanza forte, e viene da dire per fortuna: nel celebre piano-sequenza in cui gli amanti si incontrano su un ponte per organizzare gli ultimi dettagli dell’omicidio, la camera li inquadra lungo tutti i loro spostamenti, da quando i due si incontrano fino a quando la discussione si fa sempre più tesa culminando nella manifestazione violenta della sfiducia reciproca. In questo modo Antonioni, con un solo movimento di camera, descrive l’amore tra i due e l’impossibilità, appunto, di viverlo veramente.

Dopo questo film, in cui la Bosé interpretava con sicurezza la femme fatale borghese e viziata grazie alla sua bellezza urbana e alla sua sensualità, e dopo essere stata, sempre per Antonioni “La signora senza camelie” (1953) e l’anno prima una delle “Ragazze di Piazza di Spagna” di Luciano Emmer, l’attrice italiana sposò il torero Luis Miguel Dominguín, da cui ebbe i tre figli Miguel, Lucía e Paola. Tornò al cinema alla fine degli anni Sessanta, e lavorò con i fratelli Taviani in “Sotto il segno dello scorpione” e con Fellini nel “Satyricon”, e poi ancora De Santis, Bolognini, Cavani, Rosi, fino ad “Harem Suaré” di Ferzan Ozpetek e “I Viceré” di Faenza.

“Giocava leggera senza lasciare un segno nel campo, come una piuma”, è stato detto di lei: come una piuma speriamo che abbia lasciato la terra, ieri, nel segno di un’eleganza e di una grazia indimenticabili.

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