di Greta Boschetto
Fuoco fatuo (Le feu follet) è un film del 1963 di Louis Malle con Maurice Ronet, Jeanne Moreau, Léna Skerla e Bernard Noël.
“- Sì sono invecchiato, non ho più speranze ma una certezza: sono uscito dalla gioventù per entrare in un’altra vita. Tu volti le spalle, rifiuti la maturità, resti immerso nell’adolescenza: è da questo che viene la tua angoscia.
– Io non voglio, non voglio invecchiare.
– Rimpiangi la gioventù come se tu l’avessi ben spesa.
– Era una promessa, e anche una menzogna: ero io il bugiardo.”
Una delicata discesa nelle tenebre più buie dell’animo umano.
Ci ritroviamo immediatamente a sentirci ospiti discreti degli ultimi due giorni di vita di Alain, avvertiamo dalla prima sequenza la sua tragica diversità, sentiamo da subito l’aria in cui si muove intrisa di morte, ultima dolce idea in cui rifugiarsi che lo accompagnerà per tutto il suo peregrinaggio; lo pediniamo per le strade di Parigi, lo vediamo non riuscire a rientrare nella vita e lo percepiamo davvero vivo solo nei suoi ricordi.
La macchina da presa è testimone oculare dei suoi gesti e scruta nel suo interno.
Alain è ancora giovane ma non ci si sente più, è un ex alcolista appena dimesso da una clinica e un dandy come lo era nella vita anche Maurice Ronet, che in questa pellicola interpreta il suo personaggio magistralmente e immergendosi così tanto in lui da diventare un tutt’uno, come se per entrambi la ricerca della guarigione e della morigeratezza significhi togliersi ancora di più la voglia di vivere.
Il tempo di Alain è finito e si accinge al congedo, ha deciso di abdicare all’illusione della felicità.
Prima di farlo, un’ultima occhiata alla vita, con un dolore orgoglioso e pieno di pudore ma allo stesso tempo lucido, di qualcuno che semplicemente non ha trovato il suo posto.
Cerca di spiegarlo al suo amico Debourg (commuovente l’amicizia maschile in quegli anni, due uomini che camminano a braccetto nel parco non si vedono più), gli racconta la sua pena, vuole essere compreso. Ma Debourg guarda la purezza di Alain e ne ha terrore, ha paura di essere giudicato, perché sa che la sua felicità è solo un compromesso firmato con la mediocrità.
Per la città intanto tutti si muovono veloci, formiche che cercano di scansare incontri non cercati che sarebbero soltanto scontri indelicati; le musiche di Erik Satie accompagnano tutto senza essere invadenti ma al tempo stesso sono completamente partecipi, drammatiche, si fondono alla perfezione al bianco e nero del film, a volte lattiginoso e a volte saturo.
Alain intanto ci prova ancora, cerca i vecchi amici, cerca di capire, ma trova solo conferme alle sue domande.
Incontra Jeanne Moreau, in una parte piccola ma incisiva e toccante, un’amica vera e sincera, sorella di solitudini ma tossicomane e rassegnata, che trova nella droga le sue ragioni per continuare a resistere e ad esistere, che Alain non capisce.
Cerca l’ipocrisia borghese a una cena di eclettici ubriachi di parole inutili, di luoghi comuni, di belle facciate, e finisce per sentirsi ancora più lontano da tutto.
Quella a cui assistiamo è una storia di transizione senza un futuro, perché il personaggio di Alain non riuscirà mai a passare dall’adolescenza all’età adulta, ma nel racconto e nella regia di Malle non c’è nessun giudizio negativo nel raccontare questa mancanza di volontà. Alain ha scelto, come aveva già scelto il protagonista della storia a cui si è ispirato il film, un romanzo dedicato a un amico morto suicida dallo scrittore Pierre Drieu La Rochelle (che si tolse anche lui la vita nel 1945).
Un dramma esistenzialista, crudo ma puro come Alain, che forse è più vivo anche da morto rispetto a chi è rimasto a sopravvivere.
Lui stesso ora è un fuoco fatuo.
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