di Fabrizio Spurio
È nel 1979 che “Alien” invade le sale di tutto il mondo. La pellicola fa da ponte tra il cinema di fantascienza e l’horror portando la tensione oltre i confini del classico film di mostri. La trama è semplice: un gruppo di persone, chiuse in un’astronave, deve sopravvivere all’assedio di un organismo alieno. E questo è il vero significato del titolo: l’alieno, la creatura totalmente al di fuori della logica umana, un essere con il quale non è possibile creare un contatto. L’alieno, lo xenomorfo, ha come unico scopo la sopravvivenza della sua specie. Uccide per difesa e per nutrirsi, o al massimo per riprodursi. Ridley Scott voleva per questo film un mostro mai visto prima, non il solito bestione in tuta di lattice come molti precedenti nella storia del cinema (anche se questo film deve molto ad una pellicola del 1958 “Il mostro dell’astronave – It! The Terror from Beyond Space” di Edward L. Chan; e anche in grossa parte a “Terrore nello spazio” del 1965 diretto da Mario Bava), ma una creatura che il pubblico non potesse facilmente definire. Dopo aver visto alcune illustrazioni dell’artista svizzero Hans Ruedi Giger (1940-2014) decise che sarebbe stato lui il designer di tutto ciò che nel film sarebbe stato alieno. Giger creò così la sua creatura più famosa, un umanoide perfetto esempio della concezione biomeccanoide cara all’artista svizzero: un organismo che fondeva in sé biologia e parti meccaniche.
Con questa pellicola le creature ultraterrene immaginate da Lovecraft trovano un’incarnazione pressoché perfetta. Il pubblico rimase spiazzato e sconvolto dal mostro. Non riusciva a farsi un’idea del suo aspetto. Era questa la sfida maggiore del regista. Alien è inquadrato per dettagli, per lampi fugaci, non riusciamo a dare una forma alla sua anatomia. Vediamo tentacoli di colonne vertebrali che terminano con lame d’acciaio, vediamo dei tubi che si innestano tra le ossa nella sua schiena. Intravediamo una lunga testa ma non riusciamo a vederne gli occhi. Non si riesce a dare una logica a questo mostro. Alien è una perfetta macchina di morte, un’arma ambulante, tutto in lui è fatto per fare del male nei modi più dolorosi e osceni. In una sequenza, quella della morte di Lambert (Veronica Cartwright), il mostro stringe la testa della donna tra le sue mani, ma in dettaglio vediamo la sua coda che sale come una lancia di ferro verso il corpo di lei. L’idea che il mostro voglia in qualche modo violare il corpo della donna da sotto è potente. Anche perchè i riferimenti sessuali nella pellicola, per quanto riguarda l’alieno sono numerosi, anche se ad un livello subliminale, ma per questo diventano ancora più disturbanti per il pubblico.
Si può analizzare questo aspetto partendo dal relitto abbandonato sulla superficie di un pianeta, che gli astronauti sono costretti ad esplorare in seguito ad una trasmissione di richiesta di soccorso. Il relitto ha la vaga forma di una gigantesca costola, ma gli enormi ingressi portano in loro l’idea di enormi orifizi anali. Già quindi si presenta insinuante l’idea dell’invasione “oscena” del corpo. E già con le prime mosse dell’alieno questa “oscenità” viene perpetrata. Il primo astronauta che viene colpito dall’alieno (in una forma per così dire larvale) è Kane (John Hurt), al quale la larva salta sul volto per inserirgli nella bocca un tentacolo, una sorta di pene, che rilascerà nello stomaco dell’uomo il suo seme mortale. La parte inferiore di questa larva dall’aspetto vagamente aracnoide è dichiaratamente una vagina. L’invasione quindi avviene da dentro, e l’alieno, nella sua forma infantile sarà partorito proprio dall’uomo, in una sconvolgente scena giustamente entrata nella storia del cinema horror. L’alieno crescerà nutrendosi dell’equipaggio. Non c’è difesa: se si prova a ferirlo dal suo corpo uscirà sangue che è acido. Il mostro è veloce, imprevisto e crea più che lo spavento, il panico. La cosa che lo spettatore ricorda sempre del mostro è la sua bocca. Pochi istanti prima di colpire il regista ci mostra il dettaglio a tutto schermo, dei feroci denti metallici del mostro.
Denti che si aprono a mostrare un’ulteriore dentiera che scatta fuori a sfondare i corpi, una bocca dentro una bocca. In natura l’ultima cosa che una preda ricorda del predatore sono le sue zanne. Il fatto che l’alieno, da un certo punto in poi del film, colpisca solo se attaccato, si nota sopratutto nel finale. Quando Ripley (Sigourney Weaver, che debutta proprio in questo film, per poi ritornare nei tre sequel “Aliens-scontro finale” 1986 diretto da James Cameron; “Alien 3” 1992 diretto da David Fincher e “Alien – la clonazione” 1997 diretto da Jean-Pierre Jeunet) scopre che l’alieno si è salvato dalla distruzione dell’astronave madre Nostromo, e si trova nella sua navetta di emergenza, lo vede sdraiato tra i motori, con una sorta di gelatina densa che lo ricopre: si vuole dare l’idea che lui si stia chiudendo in una sorta di crisalide, per addormentarsi, così da essere pronto a svegliarsi nel momento adatto per potersi riprodurre. Magari una volta giunto sulla Terra, anche se lui, naturalmente non possiede la concezione di “Terra”, a lui interessa solo trovare ospiti sui quali espletare la sua funzione di parassita. Sarà proprio Ripley, unica sopravvissuta della nave cargo Nostromo, a sconfiggere il mostro. L’antico mito della bella e la bestia si perpetua. In questo duello, teso, fatto di attese e di sguardi, il corpo di Ripley è coperto solamente da una canottiera e mutandine, così da sempbrare ancora più indifesa di fronte all’alieno. Dovrà indossare con estrema cautela la tuta che l’aiuterà a proteggersi dalla bestia.
L’astronave Nostromo è un cargo spaziale di combustibile. E’ lontana dall’idea che ci siamo fatti delle astronavi eleganti e veloci viste in “Guerre stellari” nel 1977. Con le sue quattro torri di stoccaggio sembra più una raffineria di petrolio volante piuttosto che una nave per viaggi spaziali. L’interno è quello di una fabbrica siderurgica, le pareti sono percorse da tubi, cavi elettrici, pannelli di controllo. Un ambiente perfetto per un mostro che vuole nascondersi in mille anfratti. Di fatto la Nostromo diventa una vera e propria casa dell’orrore sospesa nello spazio, isolata e per questo ancora più claustrofobica, nonostante i suoi chilometri di corridoi, paratie e controsoffitti, luoghi ideali dove il mostro può spostarsi senza essere trovato.
Questa realismo industriale si ritrova anche nell’abbigliamento degli astronauti. Indumenti normali, nessuna tuta futuristica dai colori metallizzati e sfavillanti, ma t-shirt, tute da lavoro, al massimo una felpa bianca. Vestiti pratici e funzionali che prevedono macchie di grasso. A tavola si parla di stipendi, di orari di lavoro e sindacati. Il tutto è molto vero, realistico, e porta lo spettatore a immedesimarsi ancora di più con loro, perchè parlano di cose concrete, di cose che chiunque vive sul posto di lavoro.
Ma presto si scopre che neanche la vita umana ha importanza in questo futuro sporco e industriale. L’ufficiale medico di bordo Ash (Ian Holm), si scoprirà essere un androide che aveva l’ordine da parte della “Compagnia”, potente multinazionale che controlla le industrie della Terra, di riportare un esemplare dell’alieno sulla Terra. L’equipaggio è sacrificabile di fronte agli interessi dell’industria militare.
Sembra non esserci coesione tra i membri dell’equipaggio. Forse ad un primo sguardo sembrano essere uniti contro la minaccia. Ma spesso si dividono, ci sono discussioni. Alla fine solo Ripley sembra essere l’unica che vuole trovare una soluzione per salvare tutti. E sarà l’unica in grado di far prevalere il sentimento davanti all’ egoismo di salvare solo se stessa.
Unica superstite rimasta, con la nave madre che compie un drammatico conto alla rovescia (nella speranza di distruggere l’alieno facendolo esplodere insieme all’astronave), Ripley rimane sul cargo alla ricerca del gatto Jones. Un sentimento di empatia che la porterà ad elevarsi moralmente al di sopra degli altri, e che le darà la forza per poter agire coerentemente, mantenendo a bada la paura, anche perchè sente crescere una forma di responsabilità verso un’altra creatura (questo aspetto sarà maggiormente approfondito ed ampliato nel secondo film della saga, in cui Ripley dovrà addirittura difendere una bambina, facendo leva sul più puro istinto materno).
Uno scontro totale quindi, in cui la ragione dovrà affrontare la più fredda e crudele bestialità.
Il film ricevette un Oscar per gli effetti speciali ad HR Giger ed a Carlo Rambaldi, che realizzò la meccanica della testa della creatura.
ricordo di averlo visto in prima visione a Padova, ero in missione in quella città Fui terrorizzato. Per Tornare in albergo dovevo percorrere una strada che costeggiava il torrente Bacchiglione dal quale si alzava una nebbia densa, rumori inquietanti, da lontano su di un ponte un ombra, rumori metallici. Arrivai in albergo ed ancora rumori inquietanti.
Non ho visto i sequel per la paura
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