di A.C.

Kathryn Bigelow ripercorre il corso di una pagina di storia a lungo rimasta dietro le quinte: la caccia ad Osama bin Laden, allora leader di Al-Qaida, durata circa 10 anni e giunta al termine grazie alla determinazione di una agente della CIA. Agente che qui ha il nome fittizio di Maya Lambert e il volto di Jessica Chastain.
Quello della Bigelow è un lungo tracciato che restituisce con precisione da documentario tutte le dinamiche operative che hanno portato al compimento della missione, dal clima surreale del post-11 settembre all’epilogo nel 2011, ma che di fatto si è rivelato tutt’altro che conclusivo.

All’epoca della sua uscita avrà lasciato probabilmente perplessità l’idea di un film americano sull’operazione che portò all’uccisione di bin Laden. Poteva certamente presagire un prodotto intriso di celebrazione patriottarda, ma con grande sollievo di molti l’operazione della Bigelow rifugge dai canoni di una certa produzione hollywoodiana e si avvale del mezzo cinematografico nella sua forma più pura raccontando un periodo delicatissimo di storia con assoluta onestà rappresentativa. Onestà che si evince subito proprio dalla sequenza di apertura, con una scena di tortura da parte di membri della CIA e che fa da rito di iniziazione alla protagonista Maya Lambert, in quel momento al suo esordio nel lavoro sul campo.

Maya è in tutto e per tutto la chiave di volta dell’opera, non solo da un punto di vista biografico ma anche in quelle che sono anche le riflessioni della regista. Perché sì, la Bigelow racconta con perizia i passaggi cruciali dell’operazione bin Laden in relazione ai vari contesti storici che si sono susseguiti, ma ciò le preme particolarmente è scrutare la sua protagonista in ogni suo aspetto, personale e professionale, restituendone l’immagine di un’agente dotata di inarrestabile determinazione e di incrollabile sicurezza – pur dovendo spesso sgomitare in un ambiente prettamente maschile e talvolta scettico nei suoi confronti -, ma arrivando ad una conclusione del tutto lontana da quella della glorificazione, bensì molto più aderente a quella di una nuda e cruda ossessione, il cui soddisfacimento solamente porterà un’agognata realizzazione personale.

L’impianto narrativo è estremamente rigoroso nel suo racconto carico di tensione crescente, minuto per minuto. Una tensione che rimane per lo più costante e che quasi mai eccede nell’exploit, ma che proprio in questa sua forma apparentemente trattenuta trova la sua maggiore intensità emotiva.
Una regia chirurgica quella della Bigelow, impreziosita da un comparto tecnico di eguale efficacia (pregevolissima la sequenza finale del blitz dei Navy Seals). Tutto ciò a dimostrazione di una notevolissima padronanza del racconto.
Jessica Chastain, in quello che è probabilmente il suo ruolo più strutturato: perfetta personificazione di un’efficienza glaciale, quasi robotica in tandem con un umanissimo senso di ossessione.

Zero Dark Thirty è un prodotto preziosissimo, che mostra il lato migliore del cinema seguendo le regole del racconto per immagini ma anche rispettando gli aspetti etici dello stesso. Non la celebrazione di una vittoria o un manifesto di propaganda, bensì un resoconto lucido di una pagina di storia di difficilissima lettura.
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