At Land, di Maya Deren (1944)

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di Michela Pellegrini

Quella di Maya Deren (1917–1961), sembra somigliare ad un’epopea mitica piuttosto che ad un’esperienza artistico-cinematografica, e questa è la prima lucida evidenza ad emergere direttamente dalle sue brevissime opere. Ciò però accade soltanto quando un’esistenza sembra coincidere con l’Arte. Originaria di Kiev, la sua formazione artistica si rivela e si sviluppa dentro il mondo brulicante e fertilissimo dell’avanguardia newyorkese ed è qui che viene facilmente in contatto con le filosofie, le ideologie e le correnti che ispirano più o meno scopertamente la sua arte. Tutti ingredienti questi ben diluiti – tanto da divenire latenti o poco riconoscibili – con una personalissima vocazione e ispirazione provenienti dalle proprie cavità più nascoste. Maya Deren, infatti, è una regista che arriva al cinema non soltanto attraverso la macchina da presa (una di seconda mano che gira in 16mm la prima), ma passando prima attraverso altri linguaggi artistici con i quali infarcisce, una volta approdata alla settima arte, anche i suoi film, conferendo loro un carattere di straordinaria multimedialità e per questo di modernità. Un percorso lungo che parte dalla danza appresa dalla ballerina e antropologa afro-americana Katherine Dunham che tra gli anni Trenta e Quaranta segue nelle sue tournée, fino ad arrivare alle forme del mito e del rito (quello vodoo in particolare), per poi approdare prima al cinema e successivamente e in modo definitivo proprio all’ antropologia.

Sono tutte le sue opere ad essere nutrite da questo humus appassionato che la anima, e la Deren lo sfrutta bene riuscendo a parlare quasi sempre di sé stessa ma da una prospettiva sperimentale e antinarrativa, attraverso lo scandaglio dell’io, attraverso ogni mezzo che sappia ben crivellarlo. Per un tentativo di storicizzazione, siamo ad ogni modo entro i confini sconfinati di una primissima avanguardia americana di cui lei è considerata la maestra. Ma fin qui è facile notare come la regista si sottragga da ogni etichettatura possibile in favore di un’apertura verso il buio, verso l’ignoto e concedendo alla critica quel tanto di smarginatura per far sì che le immagini vivano anche oltre lo schermo, oltre la fine della pellicola, e si producano in sviluppi inediti. Piuttosto questo spiraglio di «bianca oscurità» – parole della regista stessa – chiede di essere esplorato, in un tentativo di profondità che è tanto più simile all’esplorazione della psicoanalisi sull’inconscio seppure certamente meno scientifico. Se nella sua opera prima Meshes of the Afternoon (1943), ancora il retaggio propriamente psicoanalitico – meglio: freudiano – si fa sentire come un’eco in ognuna delle situazioni dei 14 minuti che la compongono, nella seconda prova da regista di At Land (1944) si assiste ad un inconscio, non solo meno lacerato, ma assai più libero dalle teorie del padre della psicoanalisi. At Land è un’opera che sembra sbocciare da terreni vergini nei quali non c’è spazio per le sovrastrutture intellettuali, né tanto meno per la provocazione di ascendenza surrealistica; nessun segno di violenza dell’immagine: la materia di cui il film si compone è la levità – sia pure ombrosa e sinistra – ma a suo modo libera e desiderante. La prima scena emana subito questa qualità, quando si vede una donna – l’unico personaggio “protagonista”, interpretato dalla Deren stessa – venire sputata dalle onde del mare sulla battigia. Questo sembra essere sorprendentemente l’archetipo di ogni inizio, di ogni origine. La donna è gettata nel mondo ma, in barba allo sgomento che ogni nascita crea, sembra vivere abbandonandosi al ritmo delle cose e delle figure – in realtà poche – che via via incontra. È in questi sprazzi di trama che si può percepire la portata metamorfica e panica dello stile della Deren: laddove la donna, protagonista senza nome, ma si direbbe ancor meglio: senza identità, diventa esattamente tutto – o quasi tutto – ciò che tocca, nel tentativo di cercare un’individualità propria. In questo movimento si svela una triade importante come unico slacciato fil rouge: la scoperta-perdita-ritrovamento vissuta dalla donna che scoprirà, perderà e ritroverà una pedina del gioco degli scacchi (qui è la scena sublime che evoca e anticipa la più famosa situazione de Il Settimo Sigillo di Bergman).

È un movimento circolare quello del personaggio, un peregrinare che fa venire alla mente l’esperienza di Alice di Lewis Carroll perché si assiste ad un corpo in cui avvengono reiterazioni, sospensioni, alterazioni del gesto e di una ricerca ma, come si diceva non asfittica e claustrofobica, semmai lieve.

Questa lievità non può che esistere in quanto essenza del femminile – la Deren ha molta consapevolezza che il suo cinema è cinema fatto da una donna – dove non c’è spazio per il conflitto, piuttosto il conflitto questa regista preferisce quasi “danzarlo” e alleggerirlo così di ogni peso. Non è un caso infatti se ad emergere come unico fatto più concreto – non potendo essere l’identità del personaggio protagonista di At Land che appunto è assente – è proprio la silhouette di donna in cerca di un’anima, come accade quando si assiste ad un corpo che danza, con tutte le contorsioni reali di una linea di silhouette, di un corpo che vive solo come corpo portandosi dentro, per tutta l’opera, la sensazione di una provenienza naturale, antica e ferina, oltreché una pura e libera sensualità. Se Alice nel Paese delle meraviglie compie un movimento dall’alto verso il basso, in quel mondo di sotto, il personaggio della Deren sembra compiere il contrario, essendo questo sotterraneo prima di tutto: quindi dalle profondità marine verso l’alto, dove ci sono gli uomini, dove si devono giocare delle partite.

Questo emergere dalla terra – at land vuol dire “a terra” – porta dentro di sé tanta parte della mitologia, una mitologia dell’origine e soprattutto una mitologia tutta femminile: la Deren sembra mettere alla luce la ctonìa di quelle divinità greche e non solo, “interrate”, forze sibilline ma enormi e infuocate – è lei stessa a diventare una di loro forse – attraverso un gioco di continui spostamenti di senso, attraverso immagini chiazzate talvolta dal surrealismo, talvolta dalla forza e dalla cultura antropologica della regista che apre così direttamente la propria vita personale al mito stesso, in questa coincidenza rarissima e che sempre inquieta. Il mezzo cinematografico è qui pura visionarietà. È appunto solo un mezzo, come uno speculum pronto a sondare le viscere, diventando quasi medium di un rito privato.


🔴 Vedi il film a questo link: https://youtu.be/KKvlzBY7v

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