Frankenstein, di James Whale (1931)

di Fabrizio Spurio

«Buonasera. Il signor Carl Laemmle ritiene che non sia opportuno presentare questo film senza due parole di avvertimento: stiamo per raccontarvi la storia di Frankenstein, un eminente scienziato che cercò di creare un uomo a sua immagine e somiglianza, senza temere il giudizio divino. È una delle storie più strane che siano mai state narrate, tratta dei due grandi misteri della creazione: la vita e la morte. Penso che vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi… Be’, vi abbiamo avvertito!»

Esce nel 1931 il film che avrebbe contribuito a creare il territorio del terrore cinematografico. Diretto da James Whale e prodotto dalla Universal di Carl Laemmle, Frankenstein è il secondo film che porta sullo schermo un mostro letterario, dopo il Dracula (1931) diretto da Tod Browning e interpretato da Bela Lugosi. Film che riscosse un successo enorme, e convinse i capi della Universal a gettarsi nella produzione di un altro classico del gotico.

In realtà c’era già stato un Frankenstein cinematografico (visibile QUI), diretto nel 1910 da James Searle Dawley, con Charles Ogle nella parte del mostro.

Il film di Whale si discosta notevolmente dal romanzo. La creatura perde il dono della parola, e soprattutto il finale è stato stravolto: non più un confronto all’ultimo sangue, con sfondo profondamente filosofico, tra il mostro e il suo creatore nei ghiacci polari, ma una più semplice lotta in cima ad un mulino in fiamme. Il regista decide anche di far sopravvivere lo scienziato, per permettere la creazione di eventuali seguiti (come in effetti fu fatto).

Nel film la ricerca dello shock è voluta e insistita. Il regista persegue solo lo spavento dello spettatore, tuttavia si impegna a creare una vera e propria esperienza sensoriale che possa stravolgere la mente di chi osserva. Già dalle prime immagini. Il film si apre su una scena di sepoltura, spingendo lo spettatore dritto nel centro del tema dell’opera: la Morte vista e avvertita nella sua totale crudezza. Nella sua freddezza e assenza di sentimenti. Non c’è pietà per un defunto, a parte quella che gli viene riservata dai pochi conoscenti presenti alla sepoltura.

Terminata la cerimonia, il seppellimento è un veloce lavoro di routine. L’essere umano, una volta deceduto, diventa solo un corpo da nascondere, un oggetto. E come tale è visto dal dottor Frankenstein (Colin Clive): un insieme di membra per poter effettuare esperimenti. Un supermarket dal quale scegliere i pezzi, verrebbe quasi voglia di dire i tagli migliori, per poter costruire la propria opera. Frankenstein, aiutato dal gobbo Fritz (Dwight Frye), dissotterrano il defunto appena sepolto.

La statua della Morte, alle loro spalle, sembra osservare i due mentre trafugano il cadavere. Il dottore non ha alcun rispetto per lei, tanto che, noncurante, le lancia un badile di terra sul volto. Un vero gesto di disprezzo verso quel nemico che lui vorrebbe annientare.

Nell’inquadratura subito seguente sembra che la statua sia rivolta verso un’altra direzione rispetto ai due personaggi: la Morte non si cura più di loro, li lascia alla loro follia, aspettando con pazienza le conseguenze dei loro osceni gesti. Tutto viene così giustificato con un meccanismo di causa ed effetto. Ogni azione porta alle sue conseguenze logiche. Sembra che non ci sia più spazio per l’umanità e la coscienza.

Tutto è rigorosamente scientifico e dimostrabile. Anche teorie lombrosiane entrano in campo per giustificare la violenza insita negli esseri umani. Per dimostrare che un uomo è violento e criminale basta esaminare le malformazioni strutturali del cervello. In teoria ogni criminale si potrebbe riconoscere dalla morfologia dell’encefalo.

E una mano che si muove, risvegliata dalla potenza del fulmine, basta a far urlare il suo creatore “E’ vivo!”, anche se quella offerta dall’elettricità in realtà non basta ad essere definita ‘vita’.

Al contrario dei personaggi, il regista sfrutta con potenza gli stati d’animo, e li esalta sopratutto nella luce e nella scenografia. L’espressionismo tedesco è la base che ispira la mano dello scenografo, dietro suggerimento di Whale, che ha voluto seguire personalmente ogni elemento della pellicola. Gli ambienti sono geometrici, esaltati da violente luci che tagliano le scenografie in modo drammatico, alternando luci e ombre. Un esempio è la sequenza in cui il mostro (Boris Karloff) è rinchiuso nella segreta della torre. Il muro è decorato in modo che le linee di prospettiva convergano verso un’unica finestra, come a voler simboleggiare l’unica via di fuga, sbarrata da grate. Questa prospettiva forzata fa sembrare la creatura ancor più grande, e di fatto più costretta, nel luogo in cui è reclusa. Ma è anche uno specchio del suo stato d’animo, la comprensione di essere rinchiuso in un corpo che le impedisce di vivere veramente, di essere solo la somma di istinti primordiali, mentre intuisce di poter essere qualche cosa di più.

Una pena, una sorta di dolore con cui sa di dover coesistere, in quanto per lui non vale il verbo ‘vivere’ – essendo in realtà la somma di corpi morti. Un essere alieno che viene presentato al pubblico per la prima volta dopo trenta minuti di pellicola, con tre inquadrature a stacco ravvicinato. Lo spettatore viene costretto ad osservare il mostro senza potersi preparare gradualmente alla visione, privilegio offerto dall’uso di uno zoom, risultando in questo modo ancor più disturbante. Gli stacchi lo costringono ad un avvicinamento coatto all’orrore, tre “colpi visivi” che generano lo shock, e non danno il tempo di distogliere lo sguardo.

Una scena-simbolo vede il mostro all’interno del laboratorio. Il professor Frankenstein apre una botola del soffitto, dalla quale penetra un raggio di sole. Il mostro allunga le braccia verso la luce. Si sente ancora nella fossa, sa di essere morto, e vorrebbe uscire dal quella tomba, vorrebbe tornare alla superficie, alla vita. Non è consapevole del fatto che è già vivo. Nella sua mente non c’è stato alcun cambiamento di stato. È un essere morto che sa di essere seppellito nel suo stesso corpo. Quella luce è il fuori, l’oltre da sé, al quale lui agogna. Il solo fatto di muoversi non implica la condizione di vita.

È incastrato nella sua condizione a metà, protende le mani verso Frankenstein per cercare in lui una comprensione della sua non-vita. Perché esiste se non può vivere, a cosa serve la sua esistenza, dov’è la sua luce?

Intorno a lui c’è solo odio e rifiuto, quello di Frankenstein stesso, che capisce di aver creato un abominio contro natura; l’odio di Fritz che lo tratta come un animale feroce, tormentandolo con il fuoco (sarà poi ucciso dal mostro stesso, una volta superato il limite di sopportazione).

L’unico momento in cui il mostro vede la possibilità di una redenzione, è quando incontra Maria (Marilyn Harris), una bambina che gioca sulla riva del lago gettando margherite sull’acqua. Il mostro rimane sconvolto davanti all’innocenza della bambina, all’ingenuo disinteresse per il suo aspetto orribile. Per Maria quel signore è semplicemente un compagno di giochi.

E l’innocenza del mostro, quando afferra la bambina e la getta nelle acque per poterla veder galleggiare, è totale. Davanti alla visione del corpo della bambina che affonda nel lago il mostro è colto dallo sgomento, dalla paura del suo gesto e delle conseguenze. Cerca disperatamente di riportarla a galla, schiaffeggia la superficie del lago quasi per punirlo di averle preso l’unica persona che aveva provato compassione per lui. Il mostro fugge, ma sarà presto braccato dall’intero paese. Il confronto finale sulla cima del mulino in fiamme tra il mostro e Frankenstein ha il valore di una purificazione. Lo scienziato, consapevole della sua colpa, vedrà cancellato con il fuoco il frutto del suo peccato di superbia.

L’interpretazione che offre Boris Karloff alla creatura è perfetta, un preciso equilibrio tra dolore, pena e furia animale. Il trucco di Jack Pierce crea una maschera che rimarrà nell’immaginario collettivo, tanto che la Universal non cederà mai i diritti sull’immagine della creatura. Karloff ha creato la personalità della creatura sfruttando al massimo la sua fisicità: il suo passo pesante costretto in gambaletti metallici che impedivano il libero movimento della caviglia, il trucco pesante che richiedeva almeno tre ore per essere applicato con strati di cotone e collodio, ottenendo la fronte prominente e palpebre di cera incollate sugli occhi.

Karloff ha donato alla storia del cinema il primo mostro capace di inorridire e commuovere il pubblico, creando un’icona immortale.


Film in v.o. visibile QUI in Archive.org

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