L’armata degli eroi (L’Armée des ombres), di Jean-Pierre Melville (FRA 1969)

di A.C.

1942. Nella Francia collaborazionista e sotto il dominio nazista, un gruppo organizzato di partigianeria locale oppone resistenza con una dedizione pressoché machiavellica alla causa.
Jean-Pierre Melville, noto nella storia del cinema francese (e non solo) per i suoi noir e polizieschi di ispirazione per le successive generazioni di cineasti (Michael Mann in primis), in questo film di stampo bellico, tratto dal romanzo di Joseph Kessel, fece anche ricorso alle sue esperienze di vissuto personale nella Resistenza francese per tracciare un’opera che nella sua accurata illustrazione della vita clandestina e della meticolosità lavorativa della partigianeria non ha, in realtà, nulla di apologetico o di celebrativo.

Il titolo italiano “L’armata degli eroi” risulta, infatti, a dir poco fuorviante rispetto all’originale “Armée des ombres” (L’armata delle ombre), che invece ne risaltava l’elemento disumanizzante del contesto.
Certamente Melville non puntava alla glorificazione, bensì all’aspetto che è sempre stato centrale nella sua produzione: l’essere umano. Perché nel cinema umanista di Melville si ha spesso a che fare con i più profondi aspetti psicologici dei suoi personaggi, veri e propri antieroi spesso “sporchi”, sconfitti dalla vita o il cui destino risulta scritto, ma segnati anche da certi conflitti emotivi che inevitabilmente decidono della loro sorte.

Come con il criminale “d’onore” di “Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide” o con il glaciale e introverso sicario di “Frank Costello faccia d’angelo”, in questo film assume rilevanza l’introspezione psicologica dei protagonisti.
Su tutti Philippe Gerbier (Lino Ventura), membro di spicco della Resistenza francese, devoto alla causa ma distaccato in qualunque forma di rapporto personale, al punto da condurre una vita totalmente sacrificata e spogliata di una qualunque forma di sentimento umano, e che imbattendosi in un un gruppo di soldati festanti non può fare a meno di pensare, per un attimo, a cosa abbia rinunciato. A seguire tra i compagni di lotta Mathilde (Simone Signoret), impeccabile ed efficiente ma la cui fatale “debolezza” risiede in un vincolo familiare impossibile da sopprimere, e Jean-François (Jean-Pierre Cassel, padre di Vincent), il cui senso di lealtà e amicizia vale perfino un, pur vano, gesto di sacrificio.

Una divergenza di sentimenti che non trova mai alcun elemento di comunanza se non nel perseguire la causa a tutti i costi, riversandosi anche nei rapporti tra gli stessi compagni di lotta, in un clima di forte tensione e paranoia in cui chiunque è considerato sacrificabile e non è mai permesso mostrare esitazione, anche di fronte ai peggiori “doveri militari” (emblematica la scena dell’esecuzione del traditore nei primi minuti di pellicola).
La messa in scena di Melville risalta per il suo impressionante rigore stilistico, nella cura maniacale di ogni sequenza, nella narrazione abilmente costruita sulla tensione e in quegli scenari cupi, dai colori lividi. Oltretutto nel coraggio di riportare alla luce un periodo storico non volentieri ricordato dal popolo francese, quale il collaborazionismo (non mancarono infatti accuse di “gollismo” al film), ma rinunciando ad esaltarne la controparte partigiana, bensì illustrando della stessa gli aspetti più sporchi e crudeli.

Interpretazioni da manuale per il cast, in cui svettano Ventura e Signoret.
Un film bellico piuttosto cinico, che proprio nella sua struttura antieroica trova una quantomai realistica e sincera disamina umana e storica.

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