di Marzia Procopio
Si racconta che quando Arthur Conan Doyle fece morire Sherlock Holmes, l’amatissimo investigatore cocainomane e violinista da lui creato, fu costretto dalla reazione sdegnata dei suoi appassionati lettori a far rinascere il celebre detective. Stessa cosa accade in Misery di Stephen King (1987) allo scrittore Paul Sheldon, che nell’ultimo romanzo della serie che gli ha dato la celebrità ‘uccide’ la sua eroina, Misery Chastain, e si dà a scrivere finalmente un libro indipendente dalla sua precedente produzione; completata la nuova opera, a causa di una violenta bufera di neve l’uomo ha un grave incidente automobilistico.

Su Paul che riapre gli occhi in una stanza che non conosce inizia il film di Rob Reiner Misery non deve morire (1990), per la realizzazione del quale Stephen King non voleva inizialmente vendere i diritti perché dubitava che uno studio di Hollywood potesse rimanere fedele alla sua versione. King acconsentì solo dopo aver visto l’adattamento cinematografico di Stand by Me – Ricordo di un’estate di Rob Reiner (1986), a condizione però che ci fosse proprio Reiner alla produzione o alla regia del film. Viene quasi da dire, se si è letto il libro, che King avrebbe fatto bene a non cedere, perché il film del regista newyorkese (che ha diretto, nella sua lunga carriera, anche l’ormai classico Harry ti presento Sally) non regge il paragone con il libro, nonostante l’ispirata interpretazione di Kathy Bates che con questo film vinse, tra gli altri premi, l’Oscar per la migliore attrice protagonista nel 1991.

Il romanzo è infatti, prima ancora che la storia di una psicopatica che imprigiona e sevizia uno scrittore di successo per costringerlo a riportare in vita la sua eroina, la dichiarazione d’amore e di riconoscenza di Stephen King alla propria arte. Un’arte molto esigente – come King spiegherà, da maestro qual è, nel suo On writing – che solo una grande, tenace passione permette di coltivare superando le difficoltà contingenti. Nulla di questa riflessione sulla scrittura passa nel film, che non offre i molteplici livelli di lettura del romanzo né ha il pregio della fedeltà alla sua trama, ben più articolata e cruenta, ma appiattisce tutto su un intreccio ridotto agli ingredienti del thriller: Paul Sheldon ha un grave incidente, lo salva e lo porta in casa sua una donna di nome Annie Wilkes, ex infermiera, che lo accudisce e a mano a mano gli rivela la passione per i suoi romanzi, la sua vita e le sue abitudini. Quando Annie scopre la morte dell’amata Misery, in preda a una furia cieca consegna a Paul una macchina da scrivere mancante della consonante n e gli ordina di iniziare una nuova storia in cui Misery torni in vita. Paul comincia a lavorare e crea un nuovo intreccio rendendo Annie felice, ma, sempre più angosciato per la follia della donna, pensa continuamente alla fuga. Durante una delle rare assenze di Annie, l’uomo trova un macabro album di ricordi. Quando lei lo scopre, lo mutila, non solo per punirlo ma anche per impedirgli di scappare di nuovo. Dopo aver subito una serie di violenze, Paul convince la donna a lasciargli terminare il romanzo per regalarlo al mondo, ed escogita una significativa vendetta riuscendo a salvarsi la vita. Diciotto mesi dopo, lo scrittore ci appare quasi del tutto guarito; il suo nuovo libro è un successo, ma l’uomo confessa alla sua agente di non essere ancora riuscito a superare la terribile esperienza.

Tra gli adattamenti cinematografici dei libri di Stephen King, Misery non deve morire è uno dei più amati, e deve molta della sua celebrità soprattutto all’interpretazione di Kathy Bates, che le valse l’inserimento di Annie Wilkes, da parte dell’American Film Institute, nella classifica dei 50 migliori villains, cioè ‘cattivi’, del cinema statunitense. Insieme a Bates recita uno James Caan che nonostante il mestiere non riesce a dare spessore alle emozioni di Paul né profondità alla sua figura, con ciò non rendendo conto – anche a causa delle scelte in sede di script – del significato di questo personaggio, che è anche simbolo del potere salvifico della Scrittura.
Il film, costato 20 milioni di dollari, ne incassò, alla sua uscita nel 1991, più di 61 milioni nei soli Stati Uniti.

Fra libro e film ci sono numerose differenze che molti appassionati si sono divertiti a elencare; quelle più significative sono tali perché impoveriscono la traduzione cinematografica del discorso di King sulla scrittura. Nel film, Annie comprende che Paul è riuscito a uscire dalla sua stanza notando che uno dei pinguini della sua collezione di porcellane è stato spostato; nel libro, invece, Annie rivela di averlo scoperto perché ha trovato spezzati i suoi capelli, fili sottilissimi, quasi invisibili, che precedentemente aveva disseminato per casa: da qui Annie capisce immediatamente quello che è accaduto, e noi ne vediamo la follia, che ci terrorizza tanto più quanto meno siamo in grado – e Paul con noi – di prevedere le sue mosse. Reiner inquadra il pinguino spostato, noi capiamo che sta per succedere qualcosa di brutto; King, invece, non ci avvisa prima: comprendiamo che Annie sa tutto solo leggendo la scena della punizione inflitta a Paul, e la furia di Annie, quando esplode, è anche per noi imprevedibile e perciò tanto più angosciante. Ancora: una delle scene cult del film è quella in cui la donna, non volendo assolutamente far scappare Paul, decide di fratturargli le caviglie con un martello di legno. Nel romanzo, invece, Annie amputa il piede sinistro di Paul con un’ascia, e questa non sarà la sola mutilazione. Non si tratta, naturalmente, di gusto per il particolare splatter di King, che pure non si tira mai indietro quando si tratta di tratteggiare la gratuità del male, ma di dare conto della follia dell’ex infermiera, che Paul può temporaneamente gestire solo scrivendo, solo trasformandosi nella Sherazade delle Mille e una notte che King tanto spesso gli fa citare. Altra differenza sta nel fatto che nel romanzo si legge anche parte della saga di Misery che Paul Sheldon viene obbligato a scrivere: una scelta di meta-narrazione finalizzata ancora una volta a sottolineare il potere salvifico della scrittura, che nel film non viene accolta – forse sarebbe stato complicato o noioso? – ma che consente al lettore di seguire la duplice storia, quella di Sheldon che cerca di sopravvivere e quella del romanzo che sta componendo, con le lettere della vecchia macchina per scrivere che saltano un po’ alla volta. Sempre più stordito dagli oppiacei – Misery è anche il racconto di una duplice dipendenza, quella di Paul da oppiacei e creatività e quella di Annie da Misery – Paul Sheldon continua testardamente a scrivere, inserendo a mano le lettere mancanti: scrive per salvarsi la vita, ma sorretto dall’ispirazione potente che questa situazione-limite gli dà; quasi dimentico della tragica situazione in cui si trova, scrive per scrivere, e in questa determinazione si intravede la stessa forza d’animo che deve aver avuto King quando era un giovane, squattrinato professore di letteratura inglese che abitava in una roulotte e non aveva nemmeno una macchina per scrivere, ma era ricco di talento, idee e fiducia in se stesso. Sheldon dipende dalla sua capacità creativa, una sorta di dea capricciosa capace di elargire sofferenza e sollievo, morte e vita; la scrittura è anche la terapia che aiuta Paul a distaccarsi temporaneamente da una condizione che altrimenti lo farebbe impazzire, chiuso com’è nella stanza dove Annie – anche lei dea terribile – lo ha sistemato per dargli la guarigione (o la morte).

In questa situazione claustrofobica, anche per noi l’unico modo per uscire dalla casa è leggere quello che Paul scrive ne Il ritorno di Misery; nulla di tutto ciò, invece, ed è un peccato, nel film, dove Paul Sheldon scrive forsennatamente solo per salvarsi la vita. È da riconoscere che anche nel film arriva il senso di impotenza del protagonista, imprigionato nella stanza con le gambe rotte, impossibilitato a camminare e ribellarsi, tanto più precario perché la sua ‘Ammiratrice n.1’ è una lettrice molto esigente che lo costringe a resuscitare Misery in modo onesto e plausibile. Alla maestria di King non serve, né interessa, attingere al paranormale per terrorizzarci, e in questo Kathy Bates è straordinaria ai limiti del manierismo: le sue mosse, le inflessioni della voce, gli occhi terribilmente mobili ci precipitano nella follia di Annie, e lo spettatore prova terrore – e qui sta il miglior pregio del film – davanti al carattere di questa psicopatica, di fronte alla sua realtà psichica. Ulteriore difficoltà psicologica di Paul è anticipare Annie entrando nel suo mondo, fare il doppio gioco, combatterla al suo stesso livello, e in questo l’interpretazione di Caan risulta piatta anche a causa di una sceneggiatura che si mette al servizio del plot togliendo profondità al personaggio dello scrittore, mentre il tratteggio di Annie Wilkes restituisce non il semplice tipo della psicopatica, ma un personaggio psicologicamente complesso e sfaccettato; anch’essa comunque è meno evidente nel film a causa della scelta di non porre in rilevo il modo di esprimersi della donna – caratterizzato da termini desueti che coprano le ‘volgarità’ o parole onomatopeiche derivanti dalla fissazione patologica di Annie all’età infantile – e di sacrificare le scene più cruente del libro, ad esempio quella in cui Annie uccide il giovane poliziotto venuto a interrogarla per primo.

Nel film, che pure è un ottimo prodotto del cinema mainstream, manca lo sguardo analitico e indagatore che King ha su Sheldon, sguardo che avrebbe messo ulteriormente in risalto i temi del romanzo: la dipendenza – dal Novril e dalla Creatività Paul, dalla Lettura Annie, dal ‘ritorno di Misery’ entrambi – e il rapporto dello scrittore con la Creatura e con il suo pubblico. La Scrittura salva Paul, la Lettura perde Annie: la donna morirà per salvare il manoscritto che Paul ha incendiato, Paul rinascerà anche grazie al racconto che farà del suo incubo. Per fortuna, o per bravura, di Reiner, il film ci lascia, come il libro, con una domanda sul futuro: Annie è in noi, e potrebbe sempre ricomparire nella vicina di casa o negli occhi di una cameriera; lo Scrittore resta prigioniero di sé, delle sue creature, della dipendenza dal suo pubblico di Ammiratori n.1.

Rispondi