Vertigo – La donna che visse due volte, di Alfred Hitchcock (1958)

di Bruno Ciccaglione

“La vertigine è angoscia
in quanto temo non di cadere nel precipizio,
ma di gettarmici io stesso”
Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla

 La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso”
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere

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La donna che visse due volte, il titolo che fu scelto per l’edizione italiana di Vertigo, film del 1958 di Alfred Hitchcock, è un titolo molto amato dagli ammiratori italiani di questo film, forse perché mette al centro dell’attenzione l’enigmatico e sensuale personaggio femminile interpretato da Kim Novak. Certamente la scelta intendeva anche anticipare al pubblico una parte dell’intreccio su cui il film è costruito, risentendo dell’immagine che all’epoca si aveva di Hitchcock, il “maestro del brivido”. Questa scelta coglieva anche nel tema del doppio ed in quello del rapporto con la morte alcuni elementi chiave del film. Si perdeva però, con questa enfasi sul personaggio femminile, uno degli elementi centrali di interesse di Hitchcock come autore, nella realizzazione di questo film. Con il titolo Vertigo (vertigine), infatti, il centro dell’attenzione era riservato all’ossessione che cattura il personaggio maschile interpretato da James Stewart: “Quel che mi interessava erano gli sforzi che faceva James Stewart per ricreare una donna, partendo dall’immagine di una morta”, spiegherà il regista nel celebre libro intervista a Truffaut. Non a caso, fin dagli straordinari titoli di testa, che combinano una animazione e le immagini del volto di Kim Novak (il primissimo piano di una metà del suo viso che si stringe sul suo occhio) a dominare è la figura ipnotica della spirale, che evoca la vertigine e la caduta. La vertigine è anche il pretesto su cui si basa la storia, che Hitchcock temeva fosse troppo debole e che invece viene accettato facilmente dal pubblico: la acrofobia di Scottie (James Stewart) – la paura dell’altezza, la paura e assieme il recondito desiderio di cadere – gli impedirà di salire sul campanile da cui Madeleine si getterà, il che ne faceva il candidato perfetto per il diabolico piano omicida messo in piedi dal suo ex compagno di università, deciso a far fuori la moglie.

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Il film, basato sul romanzo D’entre les morts di Pierre Boileau e Thomas Narcejac (che pare l’abbiano scritto proprio con l’idea che Hitchcock ne traesse un film), se ne distanzia in un punto essenziale: nel romanzo c’era l’effetto sorpresa nel finale, allorquando si scopriva, alla fine della storia, che la donna ritrovata da Scottie è effettivamente la stessa della prima parte della vicenda. Questa soluzione non poteva interessare a Hitchcock, che come sempre all’effetto sorpresa – pochi secondi di shock – preferisce invece l’effetto di suspence: quando Scottie dopo la morte di Madeleine incontra di nuovo Judy/Kim Novak, il pubblico apprende che si tratta effettivamente della stessa persona molto prima di quanto non riesca a fare James Stewart, che ignaro continua nella maniacale ricostruzione di Madeleine. Il pubblico non fa dunque che chiedersi: come reagirà James Stewart quando si accorgerà che lei gli ha mentito ed è effettivamente la Madeleine che lui aveva amato? Spiega Hitchcock che nel film “si osserva la resistenza di Judy a diventare di nuovo Madeleine. Nel libro c’era una donna che non voleva lasciarsi trasformare, tutto qui. Nel film c’è una donna che si rende conto che quest’uomo poco a poco la sta smascherando. Ecco l’intreccio”. È questo intreccio, questo progressivo smascheramento, che rende anche particolarmente belle le sequenze in cui James Stewart pian piano ricrea la donna che ha amato nella prima parte del film: nel vestirla e nel farle acconciare i capelli esattamente come la ricordava, quest’uomo si comporta come un amante che implora la donna di spogliarsi e lei alla fine, dopo le sue suppliche, abbandona le ultime resistenze e accetta di legare anche i capelli come quelli di Madeleine.

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Vertigo è un film lungo e insolitamente lento, per Hitchcock. Se il prototipo del film “alla Hitchcock” è Intrigo internazionale (con la serie di peripezie cui è sottoposto il personaggio protagonista, uomo comune costretto a giocare un ruolo non suo, in costante pericolo ecc.), qui la storia è tutta raccontata dal punto di vista di un uomo emotivo e quindi il ritmo naturale del film è quasi contemplativo. Del resto Scottie deve contemplare questa donna per tutto il film, prima per cogliere il mistero che il suo strano comportamento nasconde, poi per ricreare una copia esatta – un doppio – della donna amata e perduta.

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Kim Novak non è certo la tipica “bionda alla Hitchcock” ed in effetti il regista non la voleva. Aveva scelto Vera Miles (che aveva già fatto Psycho), addirittura tutti gli abiti erano già stati fatti per lei, che però rimase incinta costringendo ad un cambio di protagonista poco prima dell’inizio delle riprese. Della interpretazione di Kim Novak Hitchcock si è lamentato spesso – Hitchcock riteneva il suo fascino conturbante troppo esplicito, poco misterioso – ma possiamo tranquillamente dire che avesse torto. Se la relazione con le attrici è stata caratterizzata spesso da misoginia e da un piglio manipolativo in alcuni casi sfacciato, Kim Novak seppe tenergli testa e forse è questo che lui non le perdonò. Nel famoso libro intervista, tocca a Truffaut prendere le difese della attrice, sottolineando come pur tenendo conto delle difficoltà di rapporto che ci furono, Hitchcock fosse “ingiusto nei confronti del risultato finale, perché le assicuro che tutti coloro che ammirano La donna che visse due volte amano Kim Novak nel film. Non si vede tutti i giorni un’attrice americana così sensuale sullo schermo. Quando la ritroviamo nella strada nella parte di Judy, con la sua capigliatura rossa, è resa molto animalesca dal trucco e probabilmente anche dal fatto che sotto il maglione non portava il reggiseno…”. Ma rivedendo il film oggi c’è da aggiungere che probabilmente la critica ha messo troppo poco in evidenza l’importanza decisiva del personaggio di Judy, molto più ricco di come spesso si ricordi. Così come Scottie, anche Judy – ancora nei panni di Madeleine – si innamora: una variabile imprevista, nel piano omicida in cui era coinvolta, molto sottovalutata da una critica troppo maschilista. Se Judy fosse una cinica opportunista il film non avrebbe senso, semplicemente rifiuterebbe di prestarsi alle ossessioni di Scottie. È per amore che Judy accetta l’ossessiva trasformazione cui Scottie la sottopone. E Novak interpreta con delicatezza e intensità tutte le fragilità del suo personaggio.

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D’altra parte in questo film, come sempre, Hitchcock ha il suo modo di intendere il cinema: “la storia mi interessava molto meno dell’effetto finale, visivo, dell’attore sullo schermo una volta terminato il film” e questo è stato sicuramente all’origine dei rapporti non sempre facili con gli attori. Questa enfasi sull’effetto visivo finale è la cifra del cinema di Hitchcock: non gli interessa la verosimiglianza, il realismo. L’unica cosa che conta è quello che sarà sullo schermo, tutta la sua opera è definita dalle immagini che ha creato. Inoltre in Vertigo è forse più evidente che mai come l’elemento pittorico delle immagini sia perfettamente legato alla psicologia dei personaggi ed alle vicende narrate, creando una atmosfera di emozionante e prolungata sospensione per tutto il film. I colori giallo, verde e rosso dominano il film e sono abbastanza esplicitamente associati ai personaggi principali: la buona amica di Scottie, Midge, è vestita di giallo, giallo è il colore dominante del suo appartamento. Scottie è associato al rosso, che domina anche l’arredamento di casa sua ed è addirittura il colore della sua porta di casa.

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Madeleine/Judy è associata al verde: verde è il suo vestito la prima volta che Scottie la vede; il suo primo piano, con lo sfondo dell’arredamento rosso del locale in cui si trova, con il suo profilo a solo pochi centimetri da Scottie, sono già un annuncio del loro rapporto; quando lui la porta a casa sua dopo il tuffo nella baia, i due, per la prima volta insieme, si scambiano curiosamente i colori, lui ha un maglioncino verde e lei indossa la vestaglia rossa di lui; verde sarà il riflesso sui capelli di Madeleine, che Hitchcock ottiene filmandola con un effetto nebbia per tutta la prima parte del film; verde sarà la luce che da una insegna, attraverso la finestra, la illuminerà nel momento in cui Scottie è riuscito a ricreare la copia esatta di Madeleine .

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I riferimenti alla pittura sono innumerevoli e non casualmente Madeleine trascorre le sue mattinate in un museo, contemplando un dipinto che ritrae la figura che sembra ossessionarla (un altro doppio). Quando si getta in acqua dopo aver sparso in acqua i fiori che aveva in mano, Kim Novak ci ricorda il famoso dipinto di John Everett Millais che ritrae Ofelia ormai senza vita – e Ofelia, come sappiamo, è associata (più o meno erroneamente) alla follia ed al suicidio – esplicitamente legati alla figura di Madeleine.

Un film dunque che vive di continui richiami a significati doppi ed in cui il suo autore ha forse rivelato più esplicitamente di quanto non abbia mai fatto le sue più recondite ossessioni. Come in altri dei capolavori di Hitchcock, infine, a rendere memorabile il film sono le musiche scritte da Barnard Hermann, contribuendo a costruire quella che è stata definita “la più bella e la più crudele delle love story di Hitchcock”.

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Nota bibliografica

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