Whiplash, di Damien Chazelle (2014)

di Simone Lorenzati

Whiplash è il titolo del secondo film di Damien Chazelle (siamo nel 2014, La La Land era ancora lungi dal nascere), ma anche il titolo di un brano jazz in sette quarti che lo stesso Chazelle interpretava ai tempi dell’high school. Già, perché la storia, in effetti, ricalca per molti versi quella vissuta in prima persona proprio dal regista quando, da ragazzino liceale, suonava la batteria a livello semi-professionale.

Andrew è, infatti, un batterista jazz che sogna di diventare il numero uno, il nuovo Buddy Rich, il drummer swing per eccellenza, un misto di tecnica sopraffina ed anima ritmica. E l’unica maniera che ha per provare a farlo è attraverso l’orchestra della sua scuola diretta dal severissimo professor Fletcher. Ma l’ingresso nell’Olimpo di Fletcher non segna affatto l’inizio di un idillio, quanto il principio di una spirale distruttiva e perversa, fatta di umiliazioni continue, di violenza verbale e fisica, di isolamento crescente: il lato oscuro e malvagio del rapporto fra un allievo ed il suo maestro. Fletcher sostiene che Charlie Parker non sarebbe mai diventato Bird, il soprannome con cui si impose al mondo visto il suo saper volare sul sax contralto, se Jo Jones non gli avesse scagliato addosso un piatto al termine di una performance alquanto mediocre. E quell’umiliazione, anziché abbatterlo, lo spinse a studiare ed a migliorarsi ulteriormente.

Della pellicola va sottolineata la magistrale prova di J.K.Simmons nei panni del durissimo Fletcher, che gli è valsa l’Oscar come miglior attore non protagonista, statuetta che va ad aggiungersi a quella per la miglior colonna sonora ed a quella per il miglior montaggio. Notevolissimo il lavoro di regia, così come la musica che, ovviamente, non è mai di contorno ma sempre assoluta protagonista del film.

Intorno all’eterno dilemma del talento, dell’esercizio (sia fisico che psicologico) alla continua ricerca della perfezione, si muove la pellicola di Chazelle. La domanda, che non trova peraltro una vera risposta nell’arco del film, è fin dove sia lecito pungolare un musicista – ma potrebbe persino essere una qualsiasi altra professione – per tirarne fuori il meglio affinché sia ricordato anche in futuro: “Nessuno di noi ha mai conosciuto Charlie Parker, eppure ne discutiamo a cena settant’anni dopo”, afferma Andrew mangiando coi familiari.

Ci sono alcuni momenti del film davvero notevoli, e su cui unicamente un musicista può essersi soffermato: la rullata all’inizio dell’opera, la ripresa del pubblico visto dal palco (cosa che non avviene praticamente mai, giacché si preferisce puntare la telecamera verso i musicisti) esattamente come l’attenzione per le piccole cose ed i particolari tipici delle prove (il saxofonista che bagna l’ancia oppure il trombettista che svuota lo strumento dalla condensa). Dopo Bird (1988), quadro di Parker pennellato da un fan quale Clint Eastwood è, e Round Midnight di Bertrand Tavernier del 1986 – probabilmente il miglior omaggio alla musica afroamericana – un’altra pellicola sul jazz (dove tuttavia, va detto, non mancano gli eccessi romanzati) da sottolineare. E che, però, ce lo mostra da un’angolazione decisamente originale.

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