Uccellacci e uccellini, di Pier Paolo Pasolini (1966)

di Bruno Ciccaglione

Con Uccellacci e uccellini Pasolini compie una prima svolta nel suo cinema ed abbandona l’idea di un cinema destinato al “popolo”, inteso gramscianamente come classe sociale nettamente distinta dalla borghesia: la “rivoluzione antropologica” che egli ritiene sia avvenuta con la omologazione al sistema dei valori borghesi, infatti, ha cambiato profondamente le forme di quella distinzione. Alla nota tragica che aveva attraversato la prima parte della cinematografia pasoliniana, si contrappone qui una amara comicità, esaltata dalla presenza di un Totò completamente trasformato: non il Totò aggressivo, pungente e cinico di molti suoi personaggi – che ben si sarebbe accompagnato ai borgatari di Accattone o di Mamma Roma – ma un Totò portatore di una rassegnata e malinconica ironia. Nei bellissimi titoli di testa cantati da Modugno e musicati da Morricone, Pasolini scrive: “L’assurdo Totò, l’umano Totò, il matto Totò, il dolce Totò”.

La didascalia iniziale del film, su una strada che porta chaplinianamente verso l’orizzonte, esprime già tutto il senso di smarrimento che lo caratterizza e l’ironia con cui questo smarrimento viene raccontato: “Dove va l’umanità? Boh! – Succo di un’intervista di Mao a Mr. Edgard Snow”. Se il Terzo Mondo rappresenta ancora, in questa fase del pensiero pasoliniano, un possibile spazio di libertà fuori dai due modelli sviluppisti e consumisti dei blocchi capitalista e del socialismo reale (si pensi ai cartelli stradali che si vedono nel film, “Km 13.257 Cuba” o “Istanbul km 4253”), quel che è chiaro è che una fase storica si è chiusa e che il rapporto fra l’ideologia marxista e le sue classi sociali di riferimento deve cambiare profondamente.

Quello che a noi pare oggi l’evidenza di una difficoltà degli intellettuali della sinistra a relazionarsi con le classi popolari, veniva colto perfettamente nel 1966 dal Pasolini di Uccellacci e uccellini, che metteva in scena, contrapponendoli, da un lato i due sottoproletari Totò e Ninetto  – che vivono senza mai interrogarsi né sul perché di ciò che fanno né sulla meta del loro camminare –  e dall’altro un corvo parlante: un intellettuale che è puro pensiero, pura cultura – in cui è facile riconoscere lo stesso Pasolini – che si ostina ad avere una cieca fede nella ragione e nella Storia. Le sue analisi finiscono per essere sempre più astratte ed incomprensibili ai destinatari stessi del messaggio marxista, i due protagonisti del film. Non a caso il corvo precisa: sono finiti i tempi di Rossellini e Brecht, non si può più semplicemente comunicare la cultura attraverso l’evidenza dei fatti o dei sentimenti, c’è bisogno di nuove analisi, di nuove forme di comunicazione, di nuovi linguaggi. È da questa urgente necessità che Pasolini, al solito, si lascerà guidare, impavido, in territori inesplorati.

Uccellacci e uccellini ci offre dunque una serie di episodi pieni di simboli, ma senza un significato univoco e un messaggio esplicito. Il film è una favola poetica ricca di suggestioni che muovono da una condizione di smarrimento, ma non da un pessimismo senza via di uscita. Dice il corvo: “Non pensi però, signor Totò, che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono convinto che qualcun altro dopo di me verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. Io piango solamente su me stesso. È umano, no? In chi sente di non contare più”.

La scelta di Pasolini di impiegare Totò fu lucida: “L’ho preso per una ragione molto semplice: perché riuniva in sé in maniera assolutamente armoniosa, indistinguibile, due momenti tipici dei personaggi delle favole e cioè l’assurdità, il clownesco e l’immensamente umano. Umano proprio come nelle favole della nonna, insomma”.  Non fu semplice gestire la coppia Totò-Ninetto. La leggenda racconta che dopo il primo incontro, in cui Pasolini a casa di Totò portò Davoli per far conoscere i due protagonisti, Totò abbia spruzzato del DDT sul divano su cui si era seduto il giovanissimo “collega”. D’altra parte non si sarebbe potuto immaginare una coppia più assortita. Come già nei film precedenti, Pasolini aveva affiancato grandissimi attori (Anna Magnani, Orson Welles), agli attori non professionisti che man mano scopriva nelle borgate delle periferie romane (Citti, Garofalo, Davoli). La coppia – qui padre e figlio, Totò e Ninetto Innocenti, che di innocente non hanno nulla – sarà ancora protagonista di due cortometraggi di Pasolini, La terra vista dalla luna ed il bellissimo Che cosa sono le nuvole?.  L’esperienza darà finalmente a Totò il riconoscimento della critica che non aveva mai avuto e anche un premio speciale a Cannes, per la sua interpretazione in Uccellacci e uccellini, anche se Totò raccontò più volte delle sue perplessità e della sua sfiducia in una comicità che contenesse “un messaggio”. Se per i critici del film Uccellacci e uccellini è solo il film di Totò con gli incassi più bassi nella carriera del comico napoletano, non si può che essere grati invece a Pasolini per aver scoperto e valorizzato anche una più ampia gamma di colori nella tavolozza dell’attore.

Con Uccellacci e uccellini Pasolini imbocca una strada nuova: sa di doverlo fare ma non sa ancora dove lo porterà e più volte cambierà rotta, addirittura giungendo alla “abiura” di alcuni suoi film. Il linguaggio, a partire da qui, abbandona l’evidenza realistica e sceglie una comunicazione implicita nelle immagini, di maggiore difficoltà di lettura, soprattutto per il pubblico massificato che ha sostituito “il popolo”. Si rivolge esplicitamente ad una élite, ma non alla élite classica, borghese, bensì ad una “nuova élite”, che suppone e auspica debba pur esistere, perfino dentro la massa. Questa la tensione da cui parte. Le opere che ne risultano saranno a volte sublimi, altre volte davvero non all’altezza delle idee che vorrebbero servire, altre volte programmaticamente indigeribili dalla cultura borghese (ed in questo senso riuscite, sia pure non guardabili più di una volta, come è il caso di Salò).

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